Menopausa: lo “smarrimento” del tempo

16 Giugno, 2022
Tempo di lettura: 8 minuti

Pur senza negarne la fisiopatologia ormonale, vorrei servirmi di strumenti psicologici e antropologici per suggerire un’interpretazione e una comprensione di alcuni sintomi riferiti all’area psichica della sindrome climaterica.

Esiste una scuola antropologica, detta di cultura e personalità – le cui principali esponenti sono Margaret Mead (1901-1978) e Ruth Benedict (1887-1948) – che studia i rapporti tra psicologia individuale e cultura nella quale l’individuo si trova a vivere. Applicando questo metodo alla sindrome climaterica, cercherò di dimostrare come il disagio psicologico di alcune donne costituisca una reazione di personalità alle spinte ambientali e culturali o a quello che in linguaggio junghiano si definisce conscio collettivo. 

In tutte le culture a noi note, la dicotomia più profonda è quella tra i sessi, proprio perché coinvolge ogni ambito dell’esistenza. Alla base della creazione culturale vi è un’immagine simbolica della donna, che rimane per così dire sospesa tra Natura e Cultura e sul cui corpo – si pensi alle immagini della sessualità o della bellezza – si giocano spesso nodi e snodi della creazione culturale. Teniamo presente che la cultura è un modello globale all’interno del quale tutti gli elementi sono interconnessi secondo una struttura coerente (Kroeber 1968; Magli 1980). Questa visione gestaltica permette di comprendere come, in un contesto culturale, nessun elemento sia privo di senso ma possa e debba essere condotto alla trama complessiva. 

Il substrato implicito di una cultura è la sua concezione del tempo. “Il calendario dei primitivi o degli agricoltori, la cui base è quella del tempo mitico, è un ciclo contrassegnato dal ritorno di una data selvaggina, dalla maturazione di una data pianta o dall’aratura” (Leroi-Gourhan 1965: 370). Il susseguirsi delle stagioni, così come l’alternarsi del giorno e della notte, suggeriscono all’uomo delle origini l’idea di periodicità cosmica. La filosofia antica si declina inevitabilmente, pur nelle sue varianti, intorno all’idea di ripetizione dell’eterno ritorno. Lo stoicismo, ad esempio, postula cicli periodici di distruzione (ekpirosi) e di rifondazione (palingenesi), retti da un sistema temporale detto apocatastasi. 

Il tempo mitico o tempo sacro è dunque un tempo ciclico, che torna su sé stesso ritmicamente proponendo momenti “forti” – le feste – contrapposti alla quotidianità. “Periodicità, ripetizione, eterno presente: questi tre caratteri del tempo magico-religioso concorrono a illuminare il significato della non-omogeneità di questo tempo […] in relazione alla durata profana” (Eliade 1948: 406). La presenza delle feste garantisce la ripetizione; e la ripetizione, negando il divenire, nega la morte. In tutti i miti delle origini, la morte viene giustificata con l’inserimento nella vita di un elemento innaturale. Nessuna cultura tradizionale ha mai postulato la sostanzialità della morte che, essendo causata da un errore, viene concepita come reversibile. Tale reversibilità è garantita dal rituale. Poiché il problema centrale che conduce ai “tempi che ritornano” è quello della morte, possiamo spiegarci la presenza del tempo ciclico anche in ambito profano: difatti la Pasqua e il Primo Maggio, la Liberazione e l’Assunzione si alternano nel nostro calendario, testimoniando l’onnipervadenza del tempo sacro e confermando di conseguenza la “compattezza” del modello culturale. In una determinata cultura, come è ampiamente dimostrato dagli studi antropologici, tout se tient: ogni forma culturale si presenta come un modello globale. 

Il tempo lineare, a differenza del tempo ciclico, è un tempo storico. “In principio Dio creò il cielo e la terra”  (Genesi, I, 1). In quanto ha avuto un inizio con la creazione, il tempo avrà anche una fine. Viene in tal modo infranta la struttura circolare del ripetersi di ogni cosa e posta l’irripetibile unicità di eventi e persone. Nasce la freccia del tempo, che consente di distinguere passato e futuro e ci inchioda a un destino entropico. Si può dire che la consapevolezza della condizione umana nasce da qui, con l’ingresso in una storicità non più ritualmente annullabile. 

[…] cos’è tutta la vita, se non un aprirsi dal guscio

E poi scorrazzare nel cortile

Fino al giorno del ceppo?

Salvo che l’uomo ha il senno di un angelo

E vede l’accetta fin dal principio”

(Lee Masters 1943: 84)

Questi versi dell’Antologia di Spoon River rivelano che l’angoscia per il tempo che scorre non è altro che angoscia di morte. All’uomo sono concesse fugaci uscite dal tempo. Appartengono a questa categoria l’esperienza erotica, l’esperienza estetica e l’esperienza estatica (Turinese 2006); ma si tratta a ben vedere di tregue percorribili in breve misura e sempre deo concedente. 

“La morte sovrasta l’Esser-ci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta”

O ancora:

“L’’Esser-ci, da quando inizia ad essere, comincia a morire. In tal senso la vita non «finisce» con la morte, perché essa stessa è un continuo «finire»”

(Heidegger 1927)

La riflessione filosofica, come si vede, è strettamente connessa alla natura di animale malinconico che caratterizza l’essere umano. La condizione umana del Da-sein heideggeriano coincide infatti con l’essere-per-la-morte. Per Heidegger, la cura consiste nell’acquisire la dimensione esistenziale della temporalità, che consente di abolire la tripartizione del tempo – passato, presente, futuro – per accedere a un unico processo in cui l’uomo è il tempo: non si dà esistenza se non nel tempo, in una temporalità, appunto, che è unità di passato, presente e futuro.

Nell’orizzonte giudaico-cristiano, la cacciata dall’Eden costituisce lo sfondo mitologico che “giustifica” l’entrata nel tempo storico. 

“Tu hai dato ascolto alla tua donna

E hai mangiato il frutto

 Che ti avevo proibito.

Ora, per colpa tua,

la terra sarà maledetta: 

con fatica ne ricaverai il cibo

tutti i giorni della tua vita

[…]

Ti procurerai il pane

Con il sudore del tuo volto,

finché tornerai alla terra

dalla quale sei stato tratto:

perché tu sei polvere

e alla polvere tornerai”

(Genesi, III, 17-19)

L’entrata nel tempo storico, come abbiamo visto, coincide con l’irrompere della morte. I due fatti procedono appaiati. Anche in questo – come in innumerevoli miti – la morte viene introdotta nel mondo dalla donna. In tutte le culture, operare sul suo corpo costituisce pertanto un tentativo di invertire il processo, di annullare il tempo, di sconfiggere la morte. Non importa che tutto ciò avvenga a un livello simbolico: perché a livello della cultura di un gruppo si attua quello che Ida Magli chiama il passaggio dal simbolico al concreto (Magli – Viaggio intorno all’uomo bianco – 1986; 2007). La cultura, vero e proprio network di significati, è opera del gruppo maschile e viene edificata a spese di una diffusa “simbolizzazione” e idealizzazione della donna, a partire dal suo corpo. Il costrutto che ne deriva – esito appunto del passaggio dal piano simbolico al piano concreto – è tramandato di generazione in generazione soprattutto a cura del gruppo femminile, preposto alla successione delle tradizioni.

Il corpo femminile è dunque il luogo elettivo dove si consuma il suddetto passaggio dal simbolico al concreto. Si pensi alla rozza complessità dell’infibulazione, tesa a chiudere il pericoloso passaggio tra mondo di qua e mondo di là; l’apertura del corpo femminile rappresenta difatti un minaccioso memento di morte.

La stessa apertura è attraversata dal mistero della mestruazione, sulla cui fisiologia si sovrappongono stratificazioni mitico-simboliche assai complesse. Il mestruo viene infatti percepito come segno di potenza e in quanto tale affrontato con l’ambivalenza che si riserva al sacro. Potenti e impure, le donne mestruate vengono fatte oggetto di plurime evitazioni: non devono toccare le piante, non possono seminare, sarebbe meglio si astenessero dalle pratiche culinarie (fanno “impazzire” la maionese…) per non parlare di quelle sessuali; in definitiva possono contaminare in molti modi, per cui il periodo mestruale è tabu, come dimostra l’uso, in certe culture di livello etnologico, delle capanne delle mestruanti, luoghi lontani dal villaggio dove le donne vengono separate durante il ciclo per evitare la contaminazione del gruppo, che preferisce privarsi molti giorni l’anno di preziosa forza-lavoro pur di non rischiare pericolose contaminazioni. Anche in una cultura complessa e a noi più vicina come quella ebraica, d’altra parte, la donna mestruata non può accedere al Tempio. Come si vede, la forza del simbolo ha la meglio sulla razionalità, sempre.

“Il tempo ‘biologico’ della mestruazione, le implicazioni simboliche che il sangue mestruale porta inevitabilmente con sé, scandisce a livello microcosmico una dimensione particolare del fluire della vita che fonda la percezione del Sé femminile sempre relazionata all’integrità del ciclo vita-morte […] Questo ‘allenamento culturale’ inizia sin dalla nascita, inconsapevolmente attraverso tutte quelle pratiche che differenziano i comportamenti riservati ai maschi e alle femmine in ogni società e, consapevolmente, a partire dalla comparsa del menarca”

(Gabriella Corona – Donne giocoliere del tempo – 2003: 131-132)

Torniamo alla categoria del tempo e applichiamola alla fisiologia. Col tempo, tutti gli organi involvono. Si comincia a morire nascendo. Ogni organo ha un suo “arco di funzionamento”: cresce, raggiunge un culmine funzionale e si deteriora. Osserviamo di passaggio che l’angoscia della decrescita è figlia del mito della crescita (Hillman 2000); ma perché il decadimento viene legato in modo così sproporzionato all’attività ovarica? Non c’è donna che non faccia esplicitamente o tra le righe riferimento alla menopausa come all’inizio della fine. È comune la sensazione che sia “troppo tardi”; sensazione accentuata nel caso non si siano avuti figli ma presente anche in molte altre donne. Tale sensazione rappresenta una prima versione di quella dispercezione del tempo che ritengo all’origine di molti disagi del climaterio. Il fatto è che l’adattamento, processo prevalente nella prima metà della vita, nelle donne è molto, troppo spesso legato alla seduzione erotica; naturalmente ciò accade come risposta a una sollecitazione da parte del gruppo maschile.

“Una donna vecchia, non più mestruata, ci ispira repulsione. La giovinezza senza la bellezza ha pur sempre del fascino, ma la bellezza senza la giovinezza non ne ha alcuno”

(Schopenhauer, 1818: Supplementi, IV, 44).

La nota misoginia di Arthur Schopenhauer è espressa in modo eclatante in questa citazione; ma la sua posizione, sebbene in forma attenuata, non è così isolata.

Tuttavia il legame tra il termine delle mestruazioni e il timore della perdita della capacità seduttiva o dell’erotismo tout court è abbastanza conosciuto da non rappresentare una rivelazione originale. Ciò che mi sembra non sia stato ancora esplorato è la radice dello spaesamento che molte donne provano allo scomparire del ciclo: quello che nel titolo di questa comunicazione è stato chiamato lo smarrimento del tempo. Abbiamo visto come il fenomeno delle mestruazioni sia riferibile lato sensu all’ambito del sacro.

“Sacro: «ciò che è pieno della presenza divina»; ma anche «ciò che è proibito al contatto con gli uomini». Il sacro dunque, puro e contaminato al tempo stesso, è il luogo dell’ambivalenza”

(Turinese 2006: 121)

Dunque il fenomeno mestruale – nella sua doppia declinazione dell’apparire e dello scomparire – reca con sé, sempre, una strutturale ambivalenza. La sua natura ciclica ben si accorda con quello che vorrei proporre di chiamare rito fisiologico. La ripetizione del rito, difatti, garantisce la continuità dell’universo; in un certo senso, la continuità dell’universo personale è garantito alla donna dal rito mestruale. La mestruazione, pertanto, con la sua ciclicità diviene né più né meno che uno strumento di annullamento del tempo, un modo per mantenere inalterato il tempo ciclico, che con la sua caratteristica di eterno ritorno nega la morte. L’angoscia che il tempo lineare porta con sé, difatti, non è altro che angoscia di morte. Ma se la società annulla il tempo lineare nel gruppo di fondazione del mito – le donne – allevia nel suo complesso l’angoscia di morte. Ecco perché i maschi depositari della tecnica rituale – i ginecologi – tendono a negare la fine delle mestruazioni, prolungandole artificialmente mediante la terapia ormonale sostituiva. La morte non esiste, il gruppo è salvo. Ancora una volta – come sempre – il rito è operato sul corpo delle donne. Ma qual è l’elemento mitico che il rito riproduce?

“Il tempo del mito si ricrea nel tempo dell’agire secondo regole”

(Fachinelli, 1992: 64)

Non credo sia oziosa una notazione semantica: regole è infatti uno dei tanti sinonimi di mestruazioni. Possiamo pertanto riscrivere con una piccola sostituzione la frase di Fachinelli, contenuta non a caso in un saggio del 1992 che reca come sottotitolo Tre tentativi di annullare il tempo, e avremo: “Il tempo del mito si ricrea nel tempo dell’agire secondo mestruazioni”.

Ricordate il gioco del rocchetto, riportato in Al di là del principio del piacere (Freud, 1920)? Freud vi riporta un’osservazione destinata a gettare luce sulle difese dall’angoscia di separazione in generale e dall’angoscia di morte in particolare. Il nipotino Ernst, di un anno e mezzo, aveva un filo avvolto intorno a un rocchetto di legno. Tenendolo per il filo, egli gettava il rocchetto fuori dalla sponda del lettino accompagnando il gesto con un suono prolungato, che la madre interpretava come “via!” ; quindi lo tirava su, sottolineandone la riapparizione con un allegro “da”, che significava “qui”. Poiché il bambino ripeteva puntualmente il gioco in assenza della madre, il geniale nonno ne dedusse che esso aveva la funzione di controllare l’angoscia di separazione da lei che, come il rocchetto, sarebbe alfine ricomparsa. Commentando l’episodio, Elvio Fachinelli argomenta acutamente:

“Attraverso un rito di sparizione-riapparizione, il bambino si è reso padrone del tempo”

(Fachinelli 1992: 52)

Non è azzardato ipotizzare che la mestruazione rivesta un ruolo di rocchetto fisiologico. Se non che, viene un tempo in cui il rocchetto non risale. Il gioco non funziona più. Iniziano i disturbi riferiti alla sindrome climaterica. Preferisco la precisione semantica del termine climaterio a menopausa, troppo banalmente letterale; in greco, difatti, climater vuol dire gradino, scala, e si presta meglio a definire la difficoltà del passaggio. Il tempo ciclico suggerito dalla mestruazione non è più lì a sostenere l’illusione di un eterno ritorno. Si spalanca l’orizzonte sconosciuto, senza punti di riferimento, del tempo lineare, il cui ultimo approdo è intuitivamente senza via di scampo. Bisognerebbe affrontarlo con un’educazione filosofica alla dimensione heideggeriana della temporalità. Siamo infatti di fronte a un angosciante smarrimento del tempo. Preferiamo invece chiamarlo sindrome climaterica e affrontarlo con i freddi strumenti di una medicina cieca e sorda, che si nasconde la radice del disagio e tenta di produrre una versione maldestra del mito dell’eterno ritorno.

Una versione più approfondita di questo testo figura in appendice del libro: Luigi Turinese – Modelli psicosomatici. Un approccio categoriale alla clinica (Elsevier-Masson, Milano 2009).

* www.luigiturinese.blogspot.com 

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