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10 Agosto, 2022

La questione etica inerente alla scelta della collocazione dell’uomo nel mondo (seconda)

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Nell’interpretazione di Warburton, sebbene costituisca un cliché enunciare che Internet abbia trasformato la natura e la velocità dei nostri collegamenti con persone in tutto il mondo, questo luogo comune, però, risulta altrettanto vero. Secondo lui, si potrebbe arguire che noi non siamo costretti a fare affidamento sui notiziari nazionali per conoscere ciò che starebbe accadendo nel mondo in quanto possiamo delegare contenuto e registro delle nostre opinioni a cittadini giornalisti che twittano, bloggano o caricano le loro storie su YouTube e possiamo, convenzionalmente, accedere nel mercato liberal dei media ad Al Jazeera oppure a Fox News con la stessa rapidità con cui si accede alla BBC. Questa connessione con il mondo non sarebbe solo passiva, fornita da giornalisti che da soli avrebbero accesso alla gente in terre lontane.  Oggi, si potrebbe argomentare che, addirittura, attraverso commenti su blog, e-mail, Facebook e Twitter, si sia in grado di interagire con le persone da cui vengono scritte le notizie. Si potrebbe altresì essere in grado di chiamarli su Skype. E si potrebbero, presumibilmente, esprimere opinioni senza che siano filtrate dai media. Per di più, non sarebbero solo fatti e punti di vista sulle notizie che potremmo condividere. Siamo, effettivamente, collegati dal commercio e dall’outsourcing, in modi inimmaginabili, da anni fa, sostiene Warburton. 

In effetti, oggi i nostri colleghi e collaboratori potrebbero facilmente vivere in India come a Londra.

Nonostante ciò, anche rappresentanti accademici dell’establishment, come Cass Sunstein, direttore dell’informazione alla Casa Bianca durante l’amministrazione Obama (2009-2012), hanno espresso il timore che Internet ci renda più radicati nei nostri stessi preconcetti, a causa della nostra capacità di filtrare le informazioni che ne riceviamo. Stando a Sunstein, troveremmo le nostre nicchie e creeremo una sorta di firewall o difesa perimetrale della propria rete di informazione che ci connette al resto della “realtà”, consentendo solo angolazioni e informazioni selezionate che confermino la nostra posizione nel “mondo”. All’interno dei media convenzionali le voci che vengono ascoltate, i loro video e Tweet forniscono storie umane in prima persona con un’immediatezza che nessun resoconto di seconda mano potrebbe raggiungere. E questo starebbe accadendo su una scala che toglie il fiato.

Nonostante che la nostra incapacità adattiva (psicologica) o anche adattativa (biologica), sia come singoli che come collettivi umani, di “decentrarci”, cioè di immaginare come sarebbe essere diversi, Internet e le sue simulazioni sono utilizzati per ancorarci ancor di più alla rappresentazione del mondo indicataci dall’establishment malgrado ci decentrino.

Infatti, oggi i media ci fanno sperimentare incessantemente il vivere sotto l’attacco di droni killer e sotto la tortura che praticherebbero sulle popolazioni i regimi che non siamo “Noi”. Internet, con la sua presumibile comunicazione in tempo reale e testimonianza personale, che vedrebbe per noi la realtà a distanza, ci fornirebbe una finestra diretta e imparziale della comune umanità fuori dalle nostre democrazie liberal, consentendoci di vedere più di quanto molti di noi riescano ad accogliere. Anche se gli accademici dell’establishment sostengono che questa connettività porterebbe a un nuovo senso di ciò che abbiamo in comune, a quanto si palesa a noi profani in materia, essa sta portando ad una maggiore polarizzazione delle rappresentazioni di noi stessi e della realtà.

Infatti, anche all’interno del mondo accademico liberal e politicamente corretto, due filosofi di Princeton, Peter Singer e Kwame Anthony Appiah, avrebbero presentato opinioni contrastanti sulla nostra connessione con il resto dell’umanità o con l’Altro. Per Singer, sarebbe ovvio che la sofferenza e la morte per mancanza di cibo, riparo e cure mediche siano cattive, non importa chi le sopporta o dove si trovino. Se potessimo impedire che accadano cose del genere, sostiene, la maggior parte di noi lo farebbe. Singer non espone le sue argomentazioni in termini di cosmopolitismo, ma vuole, per empatia ed etica, minimizzare la sofferenza su scala mondiale. La sua tradizione utilitaristica dà uguale peso a tutti coloro che sono nel bisogno, senza privilegiare coloro che sono più simili a noi. 

Singer sostiene con forza il suo punto di vista attraverso ciò che si potrebbe considerare un esperimento mentale concepito per dimostrare che la maggior parte di noi, umani, condividiamo, realmente, le sue ipotesi. Singer ci chiede di immaginare di trovarci a passare davanti a uno stagno dove sentiamo e vediamo un bambino in difficoltà che sta annegando. Ci propone anche di immaginare che proprio in quel momento stiamo indossando un paio di scarpe molto costoso. Stando a Singer, anche in tali circostanze noi non esiteremmo a saltare nello stagno e salvare il bambino, indipendentemente da quello che possa succedere alle nostre scarpe nel processo di salvataggio. [1]

Il cosmopolitismo presuppone che abbiamo obblighi significativi nei confronti dei nostri simili, ovunque si trovino

Al presente ci sarebbero circa 1,4 miliardi di persone che vivono in condizioni di estrema povertà, quasi un quarto della popolazione mondiale. È molto probabile che se ci considerassimo cittadini del mondo, con responsabilità e preoccupazioni per la sofferenza, ovunque la troviamo, certamente dovremmo seguire la linea di Singer. Dovremmo fare tutto il possibile per aiutare gli altri a superare una soglia che renda loro tollerabile la vita, anche se questo comportasse qualche sacrificio da parte nostra come meno vacanze esotiche, niente laptop costosi né orologi firmati o anelli di diamanti. Singer approfondisce questo punto, sostenendo che un ricco filantropo che dona milioni di dollari a un museo per salvare un dipinto del XIII secolo di Duccio di Buoninsegna dovrebbe davvero spendere quei soldi per salvare i bambini. Fa il suo punto con una provocazione spietata: se un bambino stesse bruciando a morte nel museo, chi avrebbe fatto salvare prima il dipinto? Eppure, al prezzo di un Duccio si potrebbe redimere dalla sofferenza della povertà un intero stadio di calcio

di bambini. Stando a Singer, avremmo solo l’obbligo di pagare ciò che sarebbe giusto per noi e non dovremmo sentirci male se non riusciamo ad andare oltre.

Ci sarebbero, realmente, numerosi potenziali risposte a questo dubbio, la maggior parte delle quali Singer anticipa. Una delle più impegnative, però, viene da Appiah. Figura cosmopolita lui stesso (combina i genitori britannici e ghanesi con la cittadinanza statunitense), Appiah è un eloquente difensore di una nozione di cosmopolitismo come universalismo più differenziata. Insiste sul fatto che tutti gli esseri umani condividono una biologia comune e bisogni e desideri sovrapposti. Allo stesso tempo, argomenta che possiamo celebrare la nostra diversità, in quanto il cosmopolitismo non implicherebbe omogeneità. Lontano da esso. Il suo ideale ci richiede di bilanciare un riconoscimento della nostra comune umanità e degli obblighi morali che ne derivano, con il nostro senso di “da dove veniamo” e “a cui apparteniamo”. Certamente la proposta cosmopolita di Singer trascura il fatto che non esistono risposte univoche alle controverse questioni di senso e di valori.

Anche Appiah è solidale con l’idea che abbiamo obblighi significativi nei confronti dei nostri simili, ovunque si trovino. È d’accordo sul fatto che dovremmo vederci connessi, le nostre vite, inestricabilmente intrecciate. Per Appiah, i ricchi avrebbero il dovere di pagare la loro giusta quota per alleviare la povertà estrema in tutto il mondo. Ma anche lui lascia irrisolta la dubbia nozione di giustizia. Quale sarebbe il limite discrezionale a partire dal quale posso contribuire a lenire la sofferenza altrui senza deragliare la mia vita di benessere? Appiah considera che il limite sia proprio questo: donare senza deragliare dal proprio senso di giustizia. Singer è convinto che il nostro obbligo verso gli altri vada ben oltre il nostro senso di una giusta quota di soluzione.

Questo è un punto critico per il cosmopolitismo. Se vogliamo, come dichiariamo, considerarci cittadini del mondo, come sembra, significa che debbiamo rinunciare alla maggior parte dei nostri beni mondani, rinunciare all’opera, al buon vino, al calcio dal vivo o a qualsiasi altra indulgenza costosa? Anche se Singer avesse ragione sui nostri obblighi morali, sarebbe chiaro che la visione di sacrificio che chiede rende l’intera visione poco attraente. Chi è pronto a seguirlo anche fino a donare il cinque per cento del proprio reddito annuo? Questo è un vero problema filosofico e politico su come vivere. È una seria sfida al compiacimento e all’indifferenza. E ci sono molti modi per evitare il problema, incluso abbracciare l’incoerenza: l’opzione dell’illusione di innocenza.

Tuttavia, stando a Warburton, ci sarebbe un’altra soluzione più accettabile: riconoscere il potere degli argomenti di Singer, e persino delle sue conclusioni, senza scegliere la vita di un Diogene degli ultimi giorni. Secondo Singer, ognuno di noi potrebbe dare almeno la sua giusta quota, anche se non fosse un approccio così coerente alla cittadinanza mondiale. Lui suggerisce, come compromesso etico, di riconoscere che la nostra giusta quota sia insufficiente, che la maggior parte di noi non sia in grado di raggiungere la moralità ideale in molti modi. Questo però non dovrebbe impedirci di muoverci nella direzione raccomandata da Gerocle. Più possiamo trascinare in quel cerchio esterno dell’umanità, meglio sarebbe per tutti.

Note:

[1] Peter Singer. The Life You Can Save: Acting Now to End World Poverty. Random House, New York, 2009. L’autore sostiene che i cittadini delle nazioni benestanti si comportano immoralmente se non agiscono per porre fine alla povertà che sanno di esistere nello sviluppo delle nazioni.

Articolo pubblicato su BIO Retroscena – Medicina costruzione sociale nella post-modernità – Anno XI – Numero 42 – giugno 2022

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