Pesticidi e il mercato globale delle banane

12 Marzo, 2022
Tempo di lettura: 5 minuti

Le banane sono i frutti più commercializzati al mondo. Una recente ricerca realizzata sui gusti alimentari dei bambini, indica la banana come il frutto preferito dai 0 ai 6 anniSono coltivate in 150 paesi del mondo e ogni anno ne vengono prodotte 105 milioni di tonnellate. L’Italia ne importa 600mila tonnellate, con un consumo pro capite di 10,5 kg, circa 60 banane pro capite. Considerato che molti non ne consumano proprio, possiamo facilmente desumere che altri ne fanno un uso anche quotidiano non solo a fine pasto ma come snack. Oltre a essere gradevoli sono anche comode perché protette dalla buccia e rapidamente accessibili e consumabili. La buccia della banana è consistente e dà una impressione di impenetrabilità, invece non è proprio così. Una buccia di banana ha uno spessore di circa 3 millimetri circa ma non è in grado di proteggere la polpa dai pesticidi. 

È quanto ha dimostrato il test della rivista dei consumatori svizzeri K-Tipp. L’uso di sostanze chimiche nella coltivazione delle banane lascia il segno in 7 frutti su 16, secondo l’indagine svizzera. Sulle banane pesa il sospetto di essere un frutto altamente chimico. L’industria delle banane consuma più prodotti chimici per l’agricoltura di qualsiasi altra al mondo seconda solo al cotone. 

Uso dei pesticidi nella coltivazione intensiva

Chi ha memoria ricorderà le campagne internazionali di boicottaggio nei confronti di grandi marchi accusati di spargere pesticidi dagli aerei mentre i raccoglitori, privi di piantaggione bananequalunque protezione, lavoravano. Di certo non lo hanno dimenticato coloro che sono sopravvissuti a questi avvelenamenti e le loro famiglie che da decenni tentano di ottenere indennizzi, senza  ovviamente riuscirci. Queste sostanze chimiche, alcune classificate come molto pericolose dall’Organizzazione mondiale della sanità, non solo hanno contaminato i suoli dove crescono, ma hanno inquinato le risorse idriche.

Il  Salvagente, organizzazione che si occupa della qualità dei consumi, ha publicato un test su 20 campioni di banane in commercio. A parte tre prodotti biologici gli altri 17 hanno presentato una contaminazione da pesticidi nella polpa sotto i limiti di legge (se previsti), ma quello che è risultato preoccupante è il numero delle molecole tossiche individuate: fino a 6 nel medesimo frutto. Inoltre in due grandi distribuzioni organizzate, Carrefour ed Esselunga, le analisi hanno rilevato sostanze non ammesse nelle coltivazioni biologiche.

Ci sono banane prive di pesticidi sul mercato?

I campioni esaminati sono contaminati dai neonicotinoidi (imidalcoprid, thiamethoxam e chlorfenapyr) una classe di insetticidi che sono tossici per le api e che l’Europa sta cercando di mettere al bando ma con la continua richiesta di deroghe degli stati membri, in particolare dalla Francia.

In Sud America le banane “Tucán Colombia Rainforest Alliance” di Lidl, “M-Check WWF Bananas” di Migros e “Rainforest Alliance” di Aldi sono state contaminate con azoxystrobin, un altro fungicida sospetto di tossicità per l’uomo (e per le acque). Il laboratorio ha inoltre trovato residui di miclobutanil nelle banane “Max Havelaar” di Coop e nella “Fyffes Colombia” di Volg. Questo pesticida ha causato danni agli embrioni negli esperimenti sugli animali. Ricordiamo che l’effetto “cocktail”, ovvero la interazione dei diversi pesticidi, andrebbe valutato più attentamente.

Eppure trovare sul mercato frutti senza pesticidi si può. In Svizzera tutti i prodotti biologici nel test erano privi di pesticidi. In particolare si tratta di quelli acquistati da Aldi, Coop, Globus, Lidl e Migros. Una buona notizia è che entrambi i campioni Fairtrade (dunque provenienti dal mercato equo e solidale) e comperati da Lidl e da Aldi erano interamente puliti. Così come, va detto, anche le banane dello storico marchio Chiquita.

Banane OGM e lotta alla monocoltura

La Cavendish è diventata la varietà che rappresenta quasi il 100% di tutte le banane commercializzate a livello internazionale dopo che la varietà precedentemente dominante è stata distrutta da una malattia. Il problema è adesso quello di trovare una varietà resistente al fungo TR4. 

bananaAlcuni stanno riponendo le loro speranze nei transgenici, nonostante i forti segnali che le banane geneticamente modificate sarebbero inaccettabili per la maggior parte dei consumatori. Altri sperano di trovare varietà esistenti o di creare nuovi ibridi che abbiano una resistenza naturale alla malattia TR4.

Nel frattempo piccoli agricoltori e gruppi indigeni in America Latina coltivano banane supportando la biodiversità e senza l’idea di monocolture: usano sistemi che lasciano lo spazio necessario fra piante, coltivano più varietà e arginano in maniera naturale il possibile diffondersi di malattie. Chiaramente però non hanno una produttività tale da interessare la grande distribuzione, motivo per cui le banane geneticamente modificate sembrano oggi la soluzione più vicina a combattere la crisi da agenti patogeni.

Produzioni autoctona e riduzione dei pesticidi

Sembra che non ci sia via d’uscita in un mercato così condizionato dai costi.  In Italia da poco sono nate delle coltivazioni di banane. In Sicilia, in Calabria, nelle Puglie e in altri microclimi favorevoli le banane possono crescere anche in modo naturale e senza pesticidi e non geneticamente modificate come richiedono i mercati in un prossimo futuro. Occorre una certa preparazione agronomica e determinazione per poter dar vita a un mercato autoctono e soprattutto occorre un aiuto che è condizionato dalle politiche agricole piuttosto miopi in questo settore. 

Le banane che crescono nei luoghi tropicali sono impollinate non dalle api ma da piccoli insetti e soprattutto dai pipistrelli. La caccia al pipistrello considerato come un serbatoio di virus letali e mammifero ospite di salti di specie sta dilagando. Sono ritenuti i colpevoli della pandemia da Covid19 e questo è un altro esempio di miopia scientifica.

L’orizzonte dell’offerta alimentare si allarga ai cibi di sintesi

La rivalsa dei cibi di qualità e degli ecosistemi sani potrebbe arrivare solo quando le scienze agronomiche possano stimolare le istituzioni verso un passo concettuale più evoluto, che sarà prima o poi inevitabile, per trovare soluzioni e applicazioni su mercati sempre più condizionati dalle leggi che escludono sempre più dal piatto la qualità degli alimenti proposti nella grande distribuzione. 

Il gemellaggio tra industria agro-alimentare e farmaceutica (come le alleanze Monsanto-Bayer) caratterizza la convinzione che le tecnologie adottate per le profilassi antivirali e quelle messe in atto per le coltivazioni e gli allevamenti intensivi, siano l’unica soluzione possibile.

Le aziende biotech e i giganti dell’agribusiness, stanno affinando le tecnologie per rendere commestibile una gamma di cibi, per lo più proteici, come latticini, carni, uova, il tutto su base sintetica. 

Investire in soluzioni tecnologiche per trarre profitto dai problemi da esso creati: cosa c’è di meglio se non la “conversione alimentare ecologica” per giustificare tutto questo. 

In sostanza il cibo artificiale viene proposto come “green”.

L’espansione economica in atto nel settore è inesorabile ed ha raggiunto un valore di 12 miliardi di dollari negli ultimi anni. Le previsioni sono di arrivare a commercializzare cibo artificiale per 85 miliardi  di dollari nel 2030.

La questione secondo l’ottica del mondo omeopatico

La medicina omeopatica non è solo farmacologia ma è caratterizzata da una cultura che riguarda i valori sociali e culturali, gli stili di vita, il comportamento individuale ecc.

In questo momento storico siamo chiamati a difendere i valori umani (e animali) e a promuovere il benessere e la giustizia sociale in modo ancora più deciso. 

In merito alla questione alimentare il mondo omeopatico sostiene che:

  • occorre difendere le biodiversità
  • educare la popolazione ai consumi consapevoli
  • limitare cibi artificiali e industriali
  • difendere e promuovere  le piccole produzioni 
  • diffondere la cultura del cibo biologico e biodinamico

Tutto questo in una ottica di prevenzione primaria, idea mai contemplata dai dettami dell’industria agroalimentare e farmaceutica fondate sulla tecnologia fine a se stessa e sul profitto e ben lontana da considerare i reali bisogni della popolazione. 

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