Il paziente omeopatico non è ancora una specie estinta. Il soggetto tipico si cura da anni con la Medicina Omeopatica, spesso tramandata dalla famiglia, vi si affida con equilibrio, è restio a prendere altri medicinali, lo fa solo in situazioni di emergenza. A volte nella sua storia ci sono state delle pause di qualche anno, poi è tornato con rinnovata fiducia, quasi pentito, perché: quando mi curavo con l’Omeopatia stavo meglio! Fra costoro ci sono dei veri cultori della Medicina Omeopatica, ne conoscono ed apprezzano la storia, la filosofia, i vari rimedi con le rispettive caratteristiche. Sembrano i pazienti migliori, ma qualche inconveniente c’è, ad esempio hanno spesso un’idea precisa del rimedio di cui avrebbero bisogno e indirizzano inconsapevolmente il medico in quella direzione. Fra tutti, i pazienti che danno più gratificazione sono coloro che furono curati da bambini e che da adulti portano i loro stessi bambini a visita: vederli – più corretto vederle, che più spesso sono donne – affidarti i loro figli in nome di quel ricordo indelebile ti fa felice di essere lì e di esserci stato tempo fa e nel modo giusto. Ciò nonostante tutta questa popolazione di fedeli all’Omeopatia, prima che ad un omeopata, si va assottigliando e lascia il posto ad un altro esercito di pazienti, con problematiche, tempi e modalità molto diversi. E anche la scena che si presenta ha dinamiche e gestualità coerentemente diverse. I nuovi, gli emergenti, vengono quasi sempre accompagnati: da un consorte, un figlio, un’amica (in genere quella che ha dato il consiglio). Depositano sulla scrivania un faldone con gli innumerevoli esami, prova tangibile della loro odissea. E poi, sconsolati, ti guardano e si esprimono immancabilmente così: Ho visto tanti medici e fatto tante ricerche, per favore mi aiuti, lei è la mia ultima spiaggia! Ascoltare la storia richiede tempo, occorre sfrondare i particolari irrilevanti – ad esempio i nomi dei vari medici consultati – o poco importanti, quale il succedersi delle varie terapie e la cronologia degli esami. Visionare tutto è realisticamente impossibile, ci si limita ai dati più recenti. Talvolta si recupera una anamnesi ben scritta da un collega con sintesi finale: siamo salvi! E questo per quel che serve a capire, poi bisogna curare. Già, e curare velocemente, che tempo non ce n’è più. Curare malati diventati farmacie ambulanti, con patologie oramai strutturate (fra naturali e iatrogeniche), con un esile residuo di pazienza se non del tutto esaurito; persone sconfortate, quando non disperate. L’impresa sembra oggettivamente impossibile. E per vari motivi, uno su tutti: come può il nostro prezioso quanto delicato medicinale omeopatico trovare un varco in questo coacervo e riuscire ad incidere? Emergono ricordi del liceo, quando venivo chiamato per un’interrogazione: meno ero preparato e più ero tranquillo. C’è una grande calma nella grande difficoltà. D’altronde, quando il risultato si presenta difficile o impossibile da ottenere, ogni cosa di buono che riesci a fare sarà comunque un successo. Ed allora, adagiato su questa medesima nube di tranquillità, ascolti ed osservi il paziente, sfrondi il superfluo e ti accorgi che la sua vicenda, clinica ed umana, si dipana con semplicità. Se riesci a seguire quel filo conduttore, oggettivato nei sintomi, difendendolo dagli esiti di innumerevoli interventi farmacologici, spesso sovradimensionati e dannosi, che hanno generato a loro volta sintomi, alla fine si delinea una terapia coerente. Ed efficace. Spesso incredibilmente efficace. La precisione nella scelta del rimedio e della potenza ed un’atmosfera di attenta fiducia nell’evoluzione del caso si rivelano ingredienti determinanti per un risultato apparentemente impossibile. E scopriamo che in quell’ultima spiaggia si può riposare sereni.
Da Il Medico omeopata anno XVII numero 49 aprile 2012