Il Coronavirus e la Morte

31 Maggio, 2020
Tempo di lettura: 5 minuti

In una lettera pubblica rivolta ad amici scrittori, Michel Houellebecq ha recentemente scritto: “Dopo il confinamento, non ci sveglieremo in un mondo nuovo; sarà lo stesso, ma un po’ peggio”. Argomentando tra l’altro su due tendenze della nostra epoca che sarebbero state ulteriormente accentuate dalla pandemia: la riduzione dei contatti umani e l’indifferenza verso la morte. Su quest’ultimo punto ricordando come la morte da Coronavirus sia stata poco tragica e condivisa quanto invece discreta e dissimulata: le persone muoiono sole nelle loro stanze di cura e vengono subito seppellite (anzi preferibilmente cremate) senza nessuno accanto.

Recentemente il New York Times ha dedicato la sua prima pagina al ricordo del nome e della vita di 1.000 dei 100.000 morti nella pandemia negli Stati Uniti.

Houellebecq fa esplicito riferimento ad un importante lavoro di uno storico francese, Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente. Qui viene evidenziato come per molto tempo (a parte forse i primi secoli del Cristianesimo, che preferiva sbarazzarsi dei corpi in una sorta di loro mistico affidamento alla Chiesa: uguali loculi per tutti in sotterranee catacombe lontane dalle città) è prevalso in Occidente un rapporto naturale e familiare con la morte, dalla antica accettazione del proprio destino fino alla popolare e romantica pietà per i defunti. Il leitmotiv è stato quello di una morte addomesticata. A parte l’indicibile morte della peste o una terribile morte improvvisa, alla morte ci si preparava avendo il tempo di sapere che si stava avvicinando. Sapere e vedere la propria fine arrivare era un riconoscimento spontaneo. La vera paura era dunque quella di morire inavvertitamente e/o in solitudine. Perciò la morte era vista come una cerimonia pubblica e organizzata. Era necessario che i parenti, gli amici, i vicini fossero presenti, bambini compresi. La familiarità con la morte era una forma di accettazione dell’ordine naturale. La morte assumeva il significato di bilancio della propria vita, come ancora testimonia lo splendido racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Illich. Una buona morte poteva riscattare tutti gli errori precedentemente commessi. “Nello specchio della propria morte, ogni uomo riscopriva il segreto della sua individualità” (Ariès).

Un cambiamento nell’età moderna, che passa per il Barocco ed il Romantico, è la spettacolarizzazione della morte, l’empatia per la morte dell’altro, quasi il compiacimento stesso per l’idea di morte. Eros e Thanatos. Il lutto viene ostentato, i cimiteri divengono luoghi di raccoglimento, rivendicati contro i progetti di sopprimerli e di spostarli fuori città.

Ma in età contemporanea, a partire dal secolo scorso, si diffonde una morte senza qualità. La morte viene proibita, dissimulata, nascosta allo stesso morente. Un po’ per pietà, ma soprattutto perché meno spesso si muore in casa e più spesso in ospedale, dove eventualmente il moribondo ha perso conoscenza. Gli operatori della salute divengono i padroni della morte, la commozione viene relegata ad un diritto privato ma come qualcosa da tenere possibilmente nascosta. Le manifestazioni esteriori del lutto sono preferibilmente discrete, un dolore troppo visibile appare morboso. Ma un lutto trattenuto può non giovare ai sopravvissuti: non li aiuta ad elaborare la perdita e a continuare a vivere, ad eventualmente rifarsi una vita. Questi impliciti divieti, che rispondono ad un tacito obbligo ad essere felici, trasformano inavvertitamente la morte in un tabù. Take it easy, it’s nothing.

La salvaguardia della felicità dimentica quanto una buona vita sia debitrice di una buona morte.

Non manca d’altronde una tradizionale resistenza allo svuotamento del rito della morte. Un film giapponese del 2008, Departures, è basato sul rito della deposizione: un modo prezioso per dare l’estremo saluto alla persona deceduta. La pulizia del corpo, il trucco sul viso e la vestizione sono le ultime simboliche carezze fatte alla persona cara, prima di lasciarla andar via per sempre. Una requie che unisce i vivi e i morti. Un’immagine di come la discrezione e la dissimulazione possano ancora essere la condizione di una buona morte.

La recente pandemia ci ha trovati impreparati sotto molti aspetti. Uno di questi, non meno importante, è che ci ha trovato impreparati di fronte alla morte: già incapaci di veramente celebrarla, non abbiamo saputo in corso di emergenza sanitaria darle il dovuto rispetto e la giusta attenzione, creare lo spazio e la condizione del possibile exitus come di una fine naturale dignitosa. Abbiamo reparti più o meno adeguati ed attrezzati di rianimazione, ma ci manca una adeguata liturgia laica della morte: e ne abbiamo tremendamente bisogno.

In un racconto meno noto, Tre morti (1859), Tolstoj intreccia le vicende di tre modi differenti di lasciare la vita. Una nobile signora, che cerca di fuggire la morte costringendo il marito a portarla all’estero, ma a cui il medico consiglia solo di avere vicino un prete. Un postiglione, che ormai da tempo non si alza dal letto, e che acconsente a cedere i suoi stivali nuovi ad un collega più giovane, dietro promessa che questi gli avrebbe comprato una lapide a memoria della sua morte. Il quale però si decide solo alcuni mesi dopo la sua morte ad intagliargli quanto meno una croce in legno. E mentre è al bosco con la sua ascia, ode la morte di un albero.

“Una vetta ebbe un insolito fremito, le sue foglie piene di linfa sussurrarono qualcosa… Per un attimo tutto tacque, poi di nuovo l’albero si piegò, di nuovo scricchiolò nel tronco e, abbandonando i rami, s’abbatté colla cima sull’umida terra… Nel nuovo spazio gli alberi fecero ancor più lietamente mostra dei loro rami immoti… E i rami degli alberi vivi lentamente e maestosamente s’agitavano sul morto albero abbattuto

(traduzione di Tommaso Landolfi).

È uomo soltanto colui che sa cos’è la vita e che cos’è la morte, e come l’una dipenda dall’altra, e come fragile sia il confine che le separa. La malattia, ma a volte la morte stessa, è il miglior equilibrio che la vita sa scegliere. Ovvero la malattia può anche diventare il viatico tra una buona vita ed una buona morte. La tecnologia sta modificando il tempo naturale della morte, ma deve trovare una nuova alleanza con il sentimento umano della morte. E se la medicina specialistica si prende al meglio cura di ogni organo, quando però è questione della vita e della morte la medicina non può che essere olistica.

Still life, vita immobile, si traduce di solito con natura morta. Ma può anche significare letteralmente: ancora vivo. È il titolo di un film inglese, il cui protagonista è un funzionario comunale, che ha il compito di rintracciare parenti o amici delle persone morte in solitudine. Non riuscendo a rintracciarli, egli con dolce diligenza si premurava di garantire comunque loro un degno funerale, scrivendo un discorso celebrativo, scegliendo la miglior musica e cercando immagini a memoria del defunto. Licenziato, perché un tal lavoro non è più giustificato dal budget dell’amministrazione, si metterà in cerca di tutte le persone conosciute da un vecchio uomo alcolizzato morto da poco, che abitava di fronte a lui. In particolare della sua figlia abbandonata tanti anni prima: la rintraccia e risuscita in lei sofferenza ed affetto. Lui poi muore imprevedibilmente in un incidente e viene seppellito in solitudine, lo stesso giorno in cui nel cimitero il funerale del suo vicino sarà celebrato con la presenza di tutti i conoscenti che lui è riuscito a rintracciare. Nel finale del film gli spiriti di tutti quelli che lui ha aiutato a morire in maniera più degna, gli rendono il giusto tributo.

Il modo in cui trattiamo i defunti è intrecciato al modo in cui la nostra società tratta i vivi.

Concludo con la fine de La morte di Ivan Illich di Tolstoj (traduzione di Paolo Nori).

“E la morte? Dov’è?”

Aveva cercato la sua solita paura della morte, quella di prima, e non l’aveva trovata. Dov’era? Che morte? Non c’era nessuna paura perché non c’era nessuna morte.

Invece della morte c’era la luce.

“Ah, è così!” aveva esclamato d’un tratto. “Che meraviglia.”

Tutto questo era successo in un attimo, per lui, e il significato di quell’attimo non era cambiato. Per i presenti la sua agonia era durata altre due ore. Nel suo petto qualcosa gorgogliava; il corpo estenuato sussultava. Poi si erano fatti sempre più radi il gorgoglio e il rantolo.

“È finita,” aveva detto qualcuno sopra di lui.

Lui aveva sentito quelle parole e le aveva ripetute nel suo animo.

“È finita la morte,” si era detto. “Non c’è più.”

Aveva aspirato l’aria, a metà del respiro si era fermato, aveva allungato le membra e era morto.

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


NEWSLETTER

Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere tutti gli aggiornamenti.

Share This