Si chiama Ettore, ha meno di due anni, è fulvo e bianco, non supera i 40 centimetri di altezza, zampe ricurve, occhi lacrimosi enormi, muso schiacciato, denti bianchi e pronunciati. Sbava continuamente. Quando abbaia sembra un trombone.
Non è molto bello, ai più non piace per il suo aspetto tozzo e pigro.
Buonissimo e al contempo coraggiosissimo, può affrontare da solo e senza timore un grosso cinghiale come uno stuolo di ladri.
Vista la sua mole non riesce neanche a salire sul divano o sul letto. Si distende per terra vicino ai miei piedi, e sempre si addormenta e russa.
Facciamo brevi passeggiate perché potete immaginare che falcata abbia, si stanca presto, e non raramente va preso in braccio per rientrare prima a casa.
È un Bulldog Inglese, si narra che si mise in mezzo a due tori che lottavano a colpi di corna per separarli, e da lì il nome della sua razza.
Passeggiate intorno a casa, purtroppo tra le macchine parcheggiate, o in un piccolo parco alberato tipo fazzoletto di verde, almeno tre/quattro volte al giorno per i suoi bisogni, e quella più seccante è quella della sera tardi.
Ma tant’è. Gli voglio bene come a un figlio, Ettore per me è il più bel cane che esista.
Ma veniamo all’accadimento.
Stavamo passeggiando nel parchetto di mezzo pomeriggio, quando vedo giungere una gentile signora con al guinzaglio una cockerina color tabacco dalle orecchie lunghe e il pelo arricciato. Una femmina.
Ettore tira forte al guinzaglio trascinandomi per avvicinarsi.
Ovviamente si annusano prima, poi cominciano a giocare ed a entrambi, e visto l’incontro, sganciamo i moschettoni dei collari.
Ovviamente scambio qualche frase con la sconosciuta: quanto ha il suo cane, cosa mangia, com’è di carattere e via così. Risponde a monosillabi però, facendomi intendere di non insistere, di non volersi intrattenere in chiacchiere.
Non importa, non sto appreso a tutte le gonnettelle che svolazzano, anche io ho il “mioperchè”, scusate.
Mi siedo sull’unica panchina sgangherata presente, tacendo tranquillo.
Nel chiamare il suo cane Bea, mi accorgo che ha poca voce, una voce rauca, bassa, quasi afona.
Si porta una mano al collo ingoiando saliva con una smorfia di dolore.
Le chiedo se sta poco bene, se vuole un po’ d’acqua, gliela porgo ancora chiusa. Rifiuta ovviamente, anche se credo ne avesse bisogno.
“Devo andare, piacere di averla conosciuta, ha proprio un bel cane”, sussurrando.
“Aspetti, sicura di sentirsi bene?”.
“Grazie, ma ho un forte mal di gola e mi è andata via la voce, mi scusi”.
Annuisco con la testa richiamando Ettore. E anch’io mi allontano.
Che mi dette il medico omeopata quella volta che persi la voce?
Se non sbaglio: Causticum alla quinta, alternato ad Argentum nitricum, sempre alla quinta CH in granuli, tre granuli spesso.
Fu portentoso è risolutivo, ricordo.
Gliele avrei voluto dire alla gentile signora, ma non sono medico, e quindi…
La rincontrai sempre al parchetto la settimana seguente, questa volta ciarliera e ben disposta.
“Oddio quanta parla, un fiume in piena, direi che mi ha quasi stordito”
Forse era meglio con la raucedine pensai malignamente guardandola.
Questa volta troncai io i suoi discorsi animalisti, per fare la spesa ossobuco e crocchette integrali. Ma mi sa che è nato l’amore tra i due, Ettore e Bea, e per questo tocca farsene una ragione.
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