Non si tratta solo di una domanda, ma di una vera e propria tentazione dei nostri tempi.
Abituati a un consumismo devastante, tendiamo a non saziarci di nulla, a non saper valorizzare ogni cosa in sé e nel suo momento e ad avere la compulsione di essere sempre altrove, di acquisire qualcos’altro e di riempirci di spazzatura, anche quando sappiamo che non ci serve a nulla. Abbiamo fretta di tutto, senza sapere dove stiamo andando, mostriamo una consolidata insoddisfazione per tutto, in parte con ragione, ma senza alcun senso.
Sebbene questa possa sembrare una riflessione fuori contesto per l’argomento in questione, è comunque alla base della domanda e della risposta.
La prima cosa inevitabile da riconoscere è che se si ha bisogno di più di un farmaco, è perché quello che si sta prendendo non funziona. Non è efficace.
Questo non significa che non faccia nulla, ma quello che fa o non è sufficiente ad affrontare il problema che vogliamo risolvere, o non è curativo, o complica la situazione fino a portare a uno stato di inguaribilità più o meno permanente, e a volte fatale. Il più delle volte, infatti, compaiono altri disagi inaspettati e indesiderati.
Questa realtà, che viene costantemente osservata, spinge, con la visione meccanicistica della medicina convenzionale, a considerare come qualcosa di necessario, logico e del tutto inevitabile aggiungere un altro e un altro e un altro farmaco, per compensare e cercare di risolvere il “pasticcio” che si sta organizzando tra l’uno e l’altro.
Come abbiamo detto più volte, il trattamento omeopatico ha grandi differenze, capacità curativa, metodo, potere d’azione sulla totalità del paziente e obiettivi molto diversi dal trattamento convenzionale, per ragioni fondamentali che derivano dalla sua diversa natura.
La medicina convenzionale affronta e si adatta alla meccanica della materia generale che fa parte di ogni paziente in modo generico, per tutti allo stesso modo. Agisce in modo parziale, fisico-chimico e frammentato. Per ogni funzione disturbata viene somministrato un farmaco compensativo. Vengono somministrati trattamenti generalizzati. I farmaci sono stati testati o sintetizzati su animali o in laboratorio. Al medico convenzionale non interessa, né fa alcuna differenza per lui, sapere “chi è il paziente”. L’obiettivo è eliminare i sintomi, che considera la malattia stessa.
La medicina omeopatica, invece, si occupa e soddisfa tutto ciò che corrisponde all’alterazione dinamica del paziente. Agisce in modo univoco e sulla totalità psico-fisica del singolo individuo. La persona viene trattata considerando la sua storia, la sua realtà e i suoi desideri. I sintomi sono l’espressione organizzata presentata dall’organismo di quella persona, unica e irripetibile, in dialogo con la sua storia. Una serie di sintomi che si offrono come immagine unica, per indicare il percorso di ciò di cui questa persona ha bisogno nella sua totalità. I farmaci sono stati tutti testati sulla persona sana e hanno rivelato la Legge di Guarigione. Per il medico omeopata fa la differenza sapere “chi” è il paziente, perché questa è la base per sapere “quale salute gli appartiene”, alla quale deve rispondere l’azione curativa, benefica ed evidente del rimedio Simillimum, unico per ogni momento esistenziale. I sintomi sono solo quelli che informano dell’alterazione della Forza Vitale del paziente, che è la causa effettiva ed efficace sia della malattia che della cura. Non sono la malattia, ma semplicemente informano del disturbo interiore e invisibile che è, di fatto, ciò che deve essere corretto.
Come sempre, non c’è niente di meglio di un esempio per illustrare la veridicità di quanto scritto.
Ana Maria ha 60 anni e una serie di sofferenze croniche. È una donna riservata e silenziosa, anche perché soffre di una grave depressione endogena. Prima ereditata e poi alimentata da una vita familiare triste o che lei ha sempre vissuto con tristezza. Ha una sorella di due anni più giovane, con la quale però non si è mai relazionata abbastanza, come in effetti – dice – è successo a tutti gli altri. Secondo lei, perché la depressione endogena non le ha permesso di farlo. Non è stata amata, o almeno possiamo dire che non ha provato amore, perché lei stessa non l’ha mai provato per nessun altro. È stato un sentimento che ha conosciuto come idea, ma non è mai penetrato nelle sue cellule e nella sua anima.
Le prime manifestazioni di sofferenza fisica sono state ripetute bronchiti, ogni inverno e ad ogni freddo, fino a sviluppare gravi broncopolmoniti ripetute, persino doppie, durante le stagioni fredde.
Queste erano accompagnate da frequenti tonsilliti. Fin da piccola ha sofferto di dolori reumatici in tutte le principali articolazioni, secondari a una grave miocardite acuta dopo la grande delusione di dover andare a scuola in un’altra città e lasciare la famiglia. Non l’ha vissuta come un abbandono, ma come un’espulsione e un esilio. Da quel momento si scatenò un grande risentimento silenzioso nei confronti della madre e del padre, assente e indifferente, cosa che lei non gli ha perdonato per lungo tempo.
Il suo carattere si complicò sempre di più con pensieri burrascosi, inacidendosi e rifiutando tutto e tutti. Piena di misantropia, era inavvicinabile. Amara, egoista e crudele.
Nonostante tutto questo, all’età di 26 anni sposò un uomo che la capì e la amò. Avrebbe voluto ricambiare, ma non poteva, non poteva amare. Ebbe una figlia di cui si occupò con grande interesse, ma con lo stesso problema: non riusciva ad amare.
Passarono gli anni. Si allontana dal marito, anche se lui non voleva. Non riuscì ad amare e non volle avere impegni che la costringessero a farlo.
La figlia se n’è andata di casa a causa della sua attività professionale, ma il rapporto con la madre è rimasto sepolto in un risentimento senza parole, a causa della mancanza di amore ricevuto e del suo persistente atteggiamento di isolamento.
Nel corso degli anni Ana si è riempita di dolore. La pressione sale continuamente, si arrabbia per ogni cosa, anche se silenziosamente. Spesso le viene il mal di testa perché non sa come risolvere i suoi problemi: prima il suo disagio e la sua brutta vita e poi tutte le conseguenze di tanta sofferenza. Dorme male. È stremata dal dolore e dai conflitti. Ha bisogno di sparire sempre di più, anche se deve lavorare (è una bibliotecaria).
Di fronte a una situazione del genere, la medicina convenzionale non potrebbe fare altro che riempire la paziente di antidolorifici, antinfiammatori, cortisonici, sedativi e psicofarmaci eccitanti per vedere se riesce a recuperare, seppur artificialmente, un po’ di vitalità per “tirare avanti”. Nonostante questi farmaci, come è noto, col tempo la riempiranno di effetti collaterali e complicheranno sempre di più la sua dolorosa condizione, portandola verso una vecchiaia infelice.
Di fronte alla stessa situazione, la medicina omeopatica farà un’analisi dettagliata dell’evoluzione della sua sofferenza nel corso della vita. Stabilirà i sintomi organizzati per epoche, potendo così vedere nel dettaglio la trasformazione progressiva.
Quindi raccoglierà, analizzerà e specificherà ciò che il paziente evidentemente presenta, tutto ciò che lo fa soffrire e come questi interpreta la sofferenza.
Raccoglierà in modo organizzato tutto ciò che può essere modificato nel momento dell'”oggi” del paziente, e sceglierà il Simillimum. Il rimedio che, in questo momento della sua esistenza, è in grado di abbracciare tutti i sintomi importanti presenti, in modo che siano questi a portare alla sua scelta come rimedio il più vicino possibile a ciò di cui il paziente ha bisogno, a ciò che la Forza Vitale del paziente indica di aver bisogno per innescare la reazione di guarigione profonda, dal suo interno vitale e misterioso.
Il paziente deve assumere “progressivamente” diversi rimedi adatti, ma non contemporaneamente. Il motivo è che l’organismo vivente risponde inevitabilmente a ogni stimolo che riceve, sia esso fisico-chimico o energetico.
Quando l’organismo deve rispondere a più stimoli contemporaneamente, entra nel caos o nel blocco. Quindi, se si somministrano troppi farmaci, non c’è una buona risposta organizzata verso la guarigione.
Se poi questi farmaci o stimoli energetici vengono mantenuti a lungo, il risultato è deleterio, perché si organizza cronicamente una risposta degenerata e degenerativa, per cui il paziente sta sempre peggio, nonostante la buona intenzione terapeutica.
Aggiungiamo altre riflessioni ovvie e logiche, come il fatto evidente che non è possibile identificare a quale stimolo o farmaco sia dovuto un miglioramento o un peggioramento, e quindi il beneficio non potrebbe essere ripetuto con certezza.
Infine, va sottolineato il fatto incontestabile che si riscontrano molte alterazioni secondarie, dovute all’effetto di farmaci o stimoli inadeguati, cioè non conformi a ciò che l’organismo dinamicamente, e non meccanicamente, alterato chiede. Questa alterazione dinamica richiede stimoli terapeutici dinamici, perché agendo in modo meccanico, fisico-chimico, ciò che accade, anche quando i sintomi apparentemente scompaiono per un po’, è che la natura e la risposta difensiva del paziente, il suo sistema immunitario e le sue forze vitali vengono forzate e annullate. L’uomo viene messo a tacere.
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