BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno X • Numero 40 • Dicembre 2021
Critica di Gandhi al capitalismo industriale quale modello di civiltà moderna
Stando al professore di storia dell’India e direttore del Asian Studies Centre dell’Università di Oxford, Faisal Devji, mentre l’Occidente apparteneva a una geografia europea, il suo nome significava qualcosa. Ora sarebbe soltanto una vaga invocazione carica di paura. Al riguardo, quando è stato chiesto a Ghandi cosa ne pensasse della “civiltà occidentale”, egli avrebbe apparentemente risposto che pensava che sarebbe stata una buona idea arrivare ad una intesa sul contenuto della nozione. Mentre questa celebre affermazione è considerata un ironico congedo, in realtà Gandhi aveva riflettuto molto sulla questione della “civiltà occidentale.” Nel suo manifesto del 1909 chiamato Hind Swaraj o “Indian Home Rule“, il futuro Mahatma aveva descritto il desiderio della Gran Bretagna imperiale di diffondere la “civiltà occidentale” non tanto per ipocrisia ma, fondamentalmente, come gesto suicida. Gandhi pensava che tale civiltà fosse minacciata dallo stesso sforzo di replicarsi usando i mezzi del capitalismo industriale, vale a dire più o meno allo stesso modo in cui le merci europee erano prodotte in serie per i mercati coloniali. “È una civiltà solo di nome. Sotto di essa le nazioni d’Europa si degradano e si rovinano giorno dopo giorno”, avrebbe detto. “La civiltà europea cerca di aumentare le comodità corporee, purtroppo fallisce, miseramente, anche nel farlo.”
Quella che Gandhi chiamava la moderna civiltà del capitalismo industriale cercava di moltiplicare la produzione, il desiderio e il consumo delle sue merci in tutto il mondo. Desiderava convertire il mondo intero in un vasto mercato per le loro merci. Che non avrebbe potuto farlo a Ghandi sembrava chiaro ma la colpa non sarebbe stata della civiltà del capitalismo. Stando a lui non avrebbero lasciato nulla di intentato per raggiungere l’obiettivo.
L’espansione, puramente meccanica, di questo processo, sosteneva Gandhi, avrebbe distrutto la civiltà occidentale nel suo proprio sforzo di diffondersi. Come mai, potremmo chiederci, Ghandi aveva questo pensiero? Evidentemente, era convinto che il capitalismo non apparteneva a nessun popolo o storia in particolare e poteva essere posseduto da chiunque. La civiltà moderna, in altre parole, era una specie di parassita che si sarebbe rafforzata e si sarebbe diffusa attraverso il suo ospite europeo. L’Europa le avrebbe consentito di globalizzare e attaccare altre parti del mondo ma la sua logica trainante non sarebbe stato il dominio europeo bensì solo un mezzo per raggiungere un fine, puntualizza Devji facendo riferimento al pensiero di Gandhi.
Altri pensatori asiatici e africani hanno sostenuto la distinzione tra la particolarità dell’Europa e la storia universale della modernità, rivendicavano il moderno capitalismo industriale come un’eredità umana per la quale l’Occidente sarebbe stato, semplicemente, una levatrice. Stando a questi studiosi ciò avrebbe permesso al resto del mondo di adottare il moderno capitalismo industriale senza alcun senso di rischio di civiltà o inferiorità e ai tempi di Gandhi tali intellettuali spesso indicavano il Giappone come esempio dell’adattamento tra una cultura asiatica e la civiltà moderna intesa in modo tecnico, come sostiene Devji. Dopo la sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale, la teoria della modernizzazione, ora scollegata dalla civiltà europea, avrebbe continuato a promuovere lo sviluppo capitalista. Più di recente, il ferocemente anti-occidentale Ayman al-Zawahiri, che guidò al-Qaeda dopo Osama bin Laden, affermò lo stesso punto nel 2008 quando ha giustificato il suo uso della tecnologia moderna.
Secondo Faisal Devji, Gandhi, tuttavia, considerava l’apparente universalità della civiltà moderna la sua forma più pericolosa e avrebbe anche suggerito che non c’era fine alle vittime distrutte nel fuoco della civiltà. L’effetto mortale di una tale civiltà sarebbe che le persone finiscono sotto le sue fiamme ardenti credendo che sia tutto buono. Gandhi vedeva il Giappone come schiavo delle stesse forze della violenza che riteneva stessero minando la civiltà occidentale, sostenendo che poteva ugualmente essere la bandiera britannica a sventolare su Tokyo. Il suo connazionale e contemporaneo, il filosofo e poeta Muhammad Iqbal, cercò di salvare gli ideali europei, entrambi uomini spesso associati al cristianesimo, dalla morsa distruttiva del capitalismo. Per Iqbal, questi includevano la cristianità stessa come arena per l’etica universale di Gesù.
Gandhi, infatti, suggerì che i paesi colonizzati non dovevano pensare di raggiungere la loro libertà copiando o adottando l’abilità tecnologica e le istituzioni dell’Occidente. Avrebbero dovuto invece ripudiare la via degli Stati Uniti d’America e del Giappone a favore del vero idealismo di una lotta nonviolenta. Se lo avessero fatto, stando a Faisal Devji, la libertà del mondo colonizzato avrebbe potuto, addirittura, redimere l’Occidente, restituendolo, attraverso la forza dell’esempio asiatico e africano, a un modo di vita migliore. Pertanto, piuttosto che seguire l’esempio europeo o americano, come nella teoria della modernizzazione, le lotte non violente dei popoli colonizzati avrebbero dovuto ispirare l’Occidente a ricordare i propri ideali perduti. In altre parole, Gandhi non sosteneva la superiorità della civiltà asiatica rispetto a quella europea, ma pensava che la prima potesse liberare la seconda nella propria verità. In effetti, a parte i giapponesi che imitavano la modernità europea, l’Occidente non ha mai affrontato alcun nemico che si identificasse come appartenente all’Oriente.
Nell’interpretazione di Devji, il problema con la civiltà moderna e con la sua visione dell’universalità era che, inevitabilmente, sfuggiva alla presa dell’Occidente, come dimostrato dall’espansione dell’economia e dell’impero del Giappone ai tempi di Gandhi. Le potenze imperiali europee avrebbero compreso il rischio rappresentato dall’universalità delle loro rivendicazioni, dal momento che negavano, abitualmente, che i loro sudditi coloniali avessero raggiunto la modernità sostenendo che non erano ancora pronti per l’autogoverno a causa della loro povertà e del loro analfabetismo quanto dei costumi e delle reciproche antipatie. Questo era l’argomento che gli inglesi usavano per negare l’autogoverno all’India pure all’interno dell’impero dalla fine della prima guerra mondiale fino alla fine della seconda, quando la decisione fu tolta dalle loro mani. La colonia, per l’Europa, sarebbe diventata, così, una scuola di civiltà alla quale i non europei dovevano essere iscritti in perpetuo.
Gli antimperialisti riconoscevano l’ipocrisia di questo ragionamento ma spesso cercavano l’indipendenza solo per completare il disfacimento della società nativa. Jawaharlal Nehru, ad esempio, che divenne il primo Primo Ministro indiano dopo l’indipendenza, sostenne che la Gran Bretagna non era in grado di modernizzare l’India perché dipendeva troppo dal sostegno degli aristocratici indiani e di altri conservatori che non avevano alcun interesse in essa. In una tale visione, solo un governo democratico, avrebbe affermato, sia la determinazione che la legittimità per estendere l’istruzione, ridurre la povertà, abolire i costumi nocivi e porre fine ai conflitti interni. In questo modo, Nehru e altri nuovi leader indipendentisti dimostrarono il punto di Gandhi su come chiunque nel mondo potrebbe, in linea di principio, soddisfare la promessa universale della civiltà moderna.
Se l’imperialismo europeo ha rappresentato il primo tentativo di diffusione della civiltà occidentale all’estero, preceduto, a volte, dall’attività missionaria cristiana, ha segnalato ugualmente la prima crisi dell’Occidente come idea. L’imperialismo ha reso l’Occidente una figura mobile per la prima volta, espandendo la sua geografia ben oltre l’Europa per includere colonie di coloni nelle Americhe e in Australasia.
La deterritorializzazione dell’Impero Britannico
David Dyzenhaus, descrivendo il modo in cui l’impero britannico è stato deterritorializzato nella sua espansione, si rifà al giurista tedesco Carl Schmitt che aveva citato la raccomandazione del primo ministro vittoriano Benjamin Disraeli, in uno dei suoi romanzi, suggerendo che la regina fosse trasferita in India qualora la Gran Bretagna fosse stata minacciata. Di fatto, così facendo, avrebbe solo seguito il precedente della corona portoghese, che si trasferì in Brasile durante le guerre napoleoniche. Schmitt vedeva tale mobilità come resa possibile dalla tecnologia industriale che Gandhi aveva riconosciuto come alla base della civiltà moderna. Nel suo libro Land and Sea (1942), Schmitt1 rifletteva sul modo in cui la nave, in quanto tecnologia più importante dell’impero marittimo britannico, rappresentava in miniatura la civiltà moderna. La nave, precisò Schmitt, subordinava tutti i rapporti e le attività del suo equipaggio a quelli tecnici o strumentali. Non poteva tollerare nessun principio ma pura funzionalità, con tutti gli altri ideali ridotti a forme inferiori. L’espansione imperialista dell’Occidente, quindi, avrebbe comportato la diminuzione dei propri ideali storici e spirituali in modo altrettanto suicida. Come Gandhi, Schmitt aveva capito che la metafora della “Nave dello Stato”,2 giustamente, non era semplicemente una macchina in cui gli individui erano ridotti a ingranaggi, ma che era mobile e replicabile e, quindi, non poteva mai essere proprietà inalienabile di un popolo o della storia. In questo senso, la forza dell’identità nazionale in tali stati non rappresentava altro che un disperato tentativo di possedere il paese come un pezzo distintivo di proprietà collettiva. Ma, come tutta la proprietà capitalistica, la sua alienazione è sempre stata possibile in un’economia definita dall’universalità dello scambio.
Finché l’Occidente apparteneva a una geografia europea, il suo nome, secondo a Schmitt, aveva un significato. Ma con la sua globalizzazione nell’impero, termini come “Oriente” e “Occidente” hanno dovuto essere reinventati. Schmitt aveva già visto le implicazioni della globalizzazione dell’Occidente nel suo libro The Nomos of the Earth (1950)3. Gli imperi europei hanno portato insediamenti di coloni in diverse parti del mondo nell’ovile dell’Occidente, ma sarebbero stati gli Stati Uniti d’America a fare dell’Occidente una categoria propriamente politica. Imperi come quello britannico, che erano sparsi in tutto il mondo, non avevano integrità geografica e, di conseguenza, non potevano essere divisi politicamente in domini orientali e occidentali.
La dottrina Monroe e l’estraneazione dell’Europa dall’occidente
Invece, come referisce Schmitt, con la Dottrina Monroe del 1823, un presidente americano divise il globo a metà per mettere un emisfero sotto l’indiscusso dominio del suo paese. Chiamato emisfero occidentale, questo dominio aveva al centro le Americhe ed escludeva l’Europa insieme ai suoi imperi asiatici e africani come parte dell’emisfero orientale. Per la prima volta, l’Europa fu spostata dall’Occidente e separata dalle sue ex colonie americane, nei cui affari non le era più permesso di interferire.
Enunciata per la prima volta nel settimo messaggio annuale del presidente James Monroe al Congresso il 2 dicembre 1823, la dottrina identificava un’Europa dispotica e monarchica sempre impegnata in guerre intestine e coloniali. La nuova casa della libertà sarebbe stata allora nelle Americhe. Monroe affermò che i continenti americani, per la condizione libera e indipendente che hanno assunto e mantengono, d’ora in poi non devono essere considerati soggetti per la futura colonizzazione da parte di alcuna potenza europea. Egli descrisse Europa quasi allo stesso modo in cui i suoi imperi fecero le loro colonie asiatiche e africane, anche se con la promessa di non interferire nei loro affari interni. Gli Stati Uniti d’America avrebbero iniziato ad assumere il loro ruolo imperiale in Sud e Centro America.
L’ascesa degli Stati Uniti d’America avrebbe portato direttamente alla crisi dell’Occidente
Stando al pensiero di Carl Schmitt, l’ascesa degli Stati Uniti d’America avrebbe portato direttamente alla crisi dell’Occidente, al suo sdoppiamento e spostamento, sia come posizione geografica che come categoria politica o di civiltà. Da allora questa crisi costituirebbe parte integrante dell’idea dell’Occidente, facendo sì che “Occidente” si sia ritrovato sempre in crisi e in movimento e, spesso, in mutazione.
La fine della seconda guerra mondiale e della decolonizzazione in Asia e in Africa richiesero di cambiare, di fatto, nuovamente il significato e la posizione dell’Occidente. Ora includeva entrambe le estremità dell’Oceano Atlantico settentrionale, per escludere l’Unione Sovietica e i suoi alleati asiatici come parte dell’Est in una nuova divisione del globo da Guerra Fredda in emisferi rivali. E così l’Occidente era ora la sovranità rivendicata dalla NATO, mentre l’Oriente era il Patto di Varsavia. La “politica”, come fa pensare il professore Faisal Devji, riapparirebbe nelle battaglie definite apparentemente dalla cultura e dalla civiltà che non sarebbero controllate dagli stati.
Il libro di Francis Fukuyama The End of History and the Last Man4 (1992) [La fine della storia e l’ultimo uomo. Rizzoli, Milano, 1992] aveva contrassegnato l’ultima crisi dell’Occidente con la fine della Guerra Fredda come riferisce Paul Sagar. L’Occidente era emerso vittorioso contro il comunismo. Stando a Fukuyama il grande conflitto e, quindi, le narrazioni ideologiche e di civiltà della rivalità storica, sarebbero giunte al termine. Da quel momento in poi, tutta la politica sarebbe diventata una sorta di operazione di rastrellamento interno all’interno di un ordine mondiale liberale non più diviso in Oriente e Occidente e, quindi, reso sicuro dal capitalismo globalizzato. La politica doveva essere subordinata all’economia e il trionfo globale del neoliberismo rappresentava questa visione del mondo resa sicura per il mercato e i suoi meccanismi. In particolare, le rivoluzioni colorate dell’Europa orientale non avrebbero richiesto l’uguaglianza. Era come se la visione di Gandhi del parassita che si sarebbe impossessato dal suo ospite si fosse avverata.
La teoria di Lenin e di Fukuyama sull’estinzione dello stato
Si potrebbe dire che c’era qualcosa di paradossalmente sovietico nell’argomentazione di Fukuyama, che sembrava imitare l’idea di Vladimir Lenin sulla vittoria del comunismo che portava alla sostituzione della politica con quella che, citando Friedrich Engels, chiamava amministrazione delle cose. Questa nozione faceva parte della teoria di Lenin sulla fine della storia con l’estinzione dello stato come strumento del capitale da sostituire con l’autogoverno popolare. Tuttavia, il passaggio di Fukuyama dalla storia politica alla governance neoliberista, stando a Faisal Devij, metteva semplicemente in primo piano il problema posto dai nuovi nemici interni, piuttosto che tradizionalmente esterni, di un nuovo ordine mondiale non più diviso in Oriente e Occidente.
Nel suo bestseller The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996)5, Samuel Huntington ha sostenuto contro Fukuyama che era improbabile che quest’inimicizia e, quindi, la politica o la storia, svanissero nei problemi del governo. Piuttosto, la politica riapparirebbe nelle battaglie definite dalla cultura e dalla civiltà che non erano controllate dagli stati. In questa nuova iterazione, l’Occidente, riattaccato alle sue radici religiose nel giudaismo e nel cristianesimo, sarebbe stato impegnato in una lotta di civiltà con forze come l’Islam, il Buddismo e l’Induismo. In questa visione di Huntington, gli stati e, persino, le aree geografiche giocherebbero un ruolo minore.
Con gli attacchi terroristici agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, l’attenzione di Huntington sugli attori non statali e la religione assunsero un significato urgente. Anche lo studioso Michel Foucault, come ci ricorda Cooly Colman,6 aveva scritto ampiamente sull’ipotetica devoluzione del potere dalla politica sovrana e dall’alto verso il basso alle procedure istituzionali quotidiane di disciplina e regolamentazione che normalizzano bambini, studenti, soldati, prigionieri o pazienti in buoni cittadini. Avrebbe anche lui mostrato come, in questa genealogia, i nemici della società non fossero paesi stranieri bensì nemici interni come deviati sessuali, criminali e, naturalmente, fanatici religiosi e terroristi.
A parere di Faisal Devji7, ai nostri giorni, sono il terrorismo e l’Islam a svolgere il ruolo di un tale nemico, minaccioso perché, come l’antico nemico di razza o di classe, è sia interno che esterno alle società occidentali. Si tenta di negare le interconnessioni tra l’Occidente e il suo nuovo nemico, esternalizzandolo attraverso le guerre in Afghanistan o in Iraq, le restrizioni sull’immigrazione, la sorveglianza delle moschee e la criminalizzazione di pratiche come il velo o la macellazione rituale. Eppure l’Islam è interno alle società occidentali non per immigrazione o conversione, ma perché le varie traiettorie della militanza non statale ci impediscono di definirlo geograficamente come appartenente al non-Occidente. La familiarità del terrorista con la jihad in Siria può coesistere con la sua ignoranza di quel paese e della sua lingua, pur essendo abbastanza a suo agio in Europa. Non c’è potenza straniera alla quale possa tradire l’Occidente a cui appartiene. Distrutta con la chiusura della Guerra Fredda, non è più possibile rimettere insieme l’Humpty Dumpty8 del conflitto bipolare tra Est e Ovest.
L’Islam come novo tipo di nemico
Se l’Islam è apparso come un nuovo tipo di nemico della civiltà nel XXI secolo, a parere di Faisal Devij, è anche perché non può più svolgere il ruolo di rivale geopolitico. Disperso tra gruppi e individui in tutto il mondo, prende come obiettivo non paesi, ma un’arena globale definita da flussi finanziari, merci e migrazioni. Questo mondo post-guerra fredda può essere inteso come un mercato che trasforma la politica in un insieme di sforzi in competizione da parte di stati e altri attori per regolarla o deregolamentarla. I beni soggetti a tale concorrenza vanno da risorse naturali come petrolio e pesce, manufatti come armi e tecnologia nucleare, e diritti individuali come quello alla vita, alla privacy, alla libertà di parola e alla libertà di movimento.
A parere di Devij, come i loro nemici, se anche contro di loro, i militanti musulmani vogliono regolamentare alcuni di questi beni e deregolamentarne altri per un mercato globale. Ma piuttosto che definire le loro attività nella terminologia economica dell’interesse personale, sembrano disposti a sacrificare sia i loro corpi che le società nella morte e nella distruzione per raggiungere i loro fini. Secondo Devji, il terrorismo islamico non rappresenta una minaccia esistenziale per nessuno stato. Piuttosto, ciò che lo rende importante è la sua promessa di conflitto civile come minaccia interna. Perfino il così detto “Stato islamico”, che è stato fondato dall’ISIS in Iraq, non riesce a definire geograficamente la sua guerra poiché i militanti continuano ad attaccare obiettivi in parti diverse e sconnesse del mondo. La sua militanza include, in modo cruciale, il ripudio, apparentemente nichilista, dell’interesse personale come razionalità economica che governa il comportamento umano.
La forma sacrificale assunta dalla militanza islamica porta non solo a tentativi di opposizione, ma addirittura a sorprendenti e paradossali imitazioni della sua etica. Tra questi ci sarebbe il ritorno dell’Occidente come categoria di civiltà ora contrapposta, esplicitamente, all’Islam. Ma invece di rappresentare l’universalizzazione e la razionalità tecnica della civiltà moderna che Gandhi aveva criticato, l’Occidente, come aveva sostenuto Huntington, sarebbe tornato in un’incarnazione specificamente culturale e persino teologica. Pioniere nella guerra al terrorismo, questo può, stando a Devji, ora essere visto nel ripudio populista o ultranazionalista di un “ordine globale basato su regole” universale con le sue libertà di movimento e standardizzazione. Crescendo in forza in tutta Europa e negli Stati Uniti, questa visione può essere intesa, niente meno, che come un rifiuto dello stesso Occidente nella sua incarnazione neoliberista come libero mercato di beni e lavoro.
La Brexit, secondo lo stesso Faisal Devji, illustra questa forma di sacrificio o ripudio. I suoi sostenitori sono disposti ad accettare perdite economiche e di altro tipo per riconquistare quella che considerano la loro sovranità dall’Unione Europea, come se imitassero le lotte delle loro ex colonie. Pur non rifiutando esplicitamente il principio dell’interesse personale, si sono allontanati da una visione del mondo post-guerra fredda come un mercato neoliberista di beni e idee in cui si può prosperare. Questa identificazione improvvisa, pure se sconfessata, con soggetti coloniali del passato della Gran Bretagna si sarebbe ripetuta in tutta l’Europa occidentale, dove partiti e governi di destra affermano di combattere per la loro sovranità e cultura contro l’UE tanto quanto il potenziale colonizzatore dell’immigrazione, dell’Islam e altre forme di globalizzazione. Questo strano capovolgimento storico rappresenterebbe, potremmo chiederci, un perverso adempimento della previsione di Gandhi che la civiltà del capitalismo moderno sarebbe disaccoppiata dall’Occidente?
Come la civiltà moderna che Gandhi aveva criticato, lo sforzo dell’Occidente per raggiungere l’egemonia globale nella guerra al terrore sarebbe stata superata dall’universalizzazione delle sue procedure che avrebbero legittimato stati autoritari in tutto il mondo. Dalla Turchia e dalla Russia all’India e alla Cina, la guerra al terrore non sarebbe più un progetto occidentale, ma sarebbe stata impiegata per unire l’economia favorevole al mercato con la repressione politica. E così, perfino l’ultimo progetto di riconfigurazione dell’Occidente sarebbe sfuggito alla sua portata. Allo stesso tempo, abbiamo assistito ad una lacerazione delle forme istituzionali dell’Occidente, sia nella partenza di Donald Trump da alleanze e accordi, sia con la Brexit e la riesposizione dei controlli alle frontiere in alcune parti dell’UE. Questi legami logori, tuttavia, sarebbero stati integrati da una vera e propria riscoperta dell’Occidente come entità di civiltà, come a titolo di compensazione. O stiamo, davvero, assistendo a un ritorno dell’Occidente come fenomeno spirituale, piuttosto che politico o economico?
______________Note _________________
1 Carl Schmitt. Land and Sea: A World Historical Meditation. Telos Press Publuishing, 2016. Titolo originale della pubblicazione del 1942, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung
2 La Nave di Stato è una metafora famosa e spesso citata proposta da Platone nel Libro VI della Repubblica (488a-489d). Sebbene ci sia almeno un riferimento precedente alla metafora nelle Vespe di Aristofane nel 422 a.C. Paragona il governo di una città-stato al comando di una nave da guerra e alla fine sostiene che le uniche persone adatte a essere il capitano di questa nave siano i re filosofi, uomini benevoli con potere assoluto che hanno accesso alla Forma del Bene. Le origini della metafora possono essere ricondotte al poeta lirico Alceo (frs. 6, 208, 249) e si trova nell’Antigone di Sofocle e nei Sette contro Tebe di Eschilo prima di Platone.
3 Carl Schmitt. The Nomos of the Earth in the International Law of the Jus Publicum Europaeum. TELOS Press Publishing, N. Y. 2006. Titolo originale. Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum. 1950. Descrive l’origine dell’ordine globale eurocentrico, che Schmitt fa risalire alla scoperta del Nuovo Mondo, ne discute il carattere specifico e il contributo alla civiltà, analizza le ragioni del suo declino alla fine dell’Ottocento, e conclude con le prospettive di un nuovo ordine mondiale. È un argomento ragionato, ma appassionato, in difesa della conquista europea, non solo nel creare il primo ordine veramente globale del diritto internazionale, ma anche nel limitare la guerra ai conflitti tra Stati sovrani, che in effetti avrebbero civilizzato la guerra.
4Francis Fukuyama. The End of History and the Last Man. Free Press, New York, 1992
5 Samuel Huntington. Lo scontro delle civiltà e il n uovo ordina mondiale. Garzanti, 1997
6 Cooly Colman. The power thinker: Marzo, 2917
7 Faisal Devji. Muslim Zion: Pakistan as a Political Idea. Harvard University Press, 2003
8 Humpty Dumpty, talvolta tradotto in Unto Dunto o Tombolo Dondolo, è un personaggio di una filastrocca di Mamma Oca, rappresentato come un grosso uovo antropomorfizzato seduto sulla cima di un muretto. Il personaggio fu utilizzato anche da Lewis Carroll, che gli fece incontrare Alice in uno dei capitoli più celebri di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, molto caro agli studiosi di semantica e linguistica.