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17 Agosto, 2024

La tragedia del “privato”

Interpretazione alla luce dell’intuizione che gli umani sopravvivono per la capacità della specie di creare e cooperare

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 36 • Dicembre 2020

Decolonizzando la ricchezza

Contro il credo convenzionale capitalistico della scarsità e dell’interesse personale, un significativo numero di studiosi è impegnato nello sviluppo di nuove visioni per la prosperità condivisa dell’umanità, impegno che si fa conoscere come l’economia del bene comune. Tra questi studiosi si possono passare in rassegna, il Nobel per l’economia nel 1998 Amartya Kumar Sen,1 lo storico dell’economia Dirk Philipsen2, la Nobel per l’economia 2009 Elinor Ostrom 3, l’esperto in filantropia per la giustizia sociale Edgar Villanueva4, la storica Kidada Williams5, l’economista Kate Raworth6 che prosegue il pensiero dell’Ostrom, lo studioso di diritto Jedediah Purdy7, l’accademica specializzata in razza, classe e gender Patricia Hill Collins8, l’economista ecologista Tim Jackson, l’attivista per i diritti delle donne Adrienne Maree Brown9, lo storico Rutger Bregman10, il filosofo Lorenzo Fioramonti11 e l’economista Mariana Mazzucato12.

Un fatto fondamentale sta ancora una volta mettendo in discussione la professione di fede capitalistica dell’interesse privato come motore dell’umanità, cercando di rompere l’agonia della pandemia mondiale, la crescita esponenziale della disuguaglianza sociale e la persistente disumanità dell’oppressione razzista. Operatori sanitari che rischiano la vita per gli altri, reti di mutuo soccorso che danno potere ai quartieri, agricoltori che consegnano cibo ai clienti in quarantena, madri che formano linee per proteggere i giovani dalla violenza della polizia, tutte queste manifestazioni ci ripropongono il postulato dell’eusocialità umana: siamo in questa vita insieme. Sembra che noi umani – giovani e anziani, cittadini e immigrati – diamo il meglio quando collaboriamo. In effetti, e come documentato13 dallo studio sistematico dell’evoluzione biologica del comportamento sociale, il nostro unico modo per sopravvivere è sostenerci a vicenda, salvaguardando la resilienza e la diversità di questo pianeta in cui siamo capitati.

Quest’intuizione della cooperazione come motore della specie non è nuova o sorprendente. Gli antropologi propongono da tempo che, essendo noi una specie né particolarmente forte né veloce, gli umani siamo sopravvissuti grazie alla nostra capacità unica di creare e cooperare. “Tutta la nostra prosperità è reciproca” è il modo in cui lo studioso indigeno Edgar Villanueva ha catturato quest’antica idea nel suo libro Decolonizing Wealth. La novità è la misura in cui così tanti leader civili ed imprenditoriali – a volte intere culture e civiltà – hanno perso e stanno perdendo di vista la nostra più preziosa qualità di specie: aiutarci a vicenda.

Secondo lo storico dell’economia Dirk Philipsen, questa perdita della capacità di cooperare della specie, per quanto riguarda le nostre società cosiddette occidentali, sarebbe radicata, fondamentalmente, nella tragedia del privato. Dalla sua prospettiva, nella storia della nostra civiltà la nozione del privato sarebbe passata, in breve tempo, da idea curiosa a ideologia e, successivamente, a sistema economico globale, rivendicando l’egoismo, l’avidità e la proprietà privata come i veri semi del progresso. In effetti, questo concetto ingannevole che molti lettori hanno probabilmente sentito sotto il nome della “la tragedia dei commons” [o la tragedia dei beni comuni]”14, secondo Philipsen, ha le sue origini nell’ipotesi che propone che l’interesse privato sia la guida predominante per l’azione umana. La vera tragedia, tuttavia, in base alle considerazioni di Philipsen ed altri studiosi, non starebbe nei beni comuni, cioè nell’accesso collettivo alle risorse culturali e naturali, quali la conoscenza e l’acqua,15 ma nel privato. Sarebbe il privato a produrre violenza, distruzione ed esclusione. L’idea del privato separerebbe, sfrutterebbe e esaurirebbe in modo diverso chi vive sotto la sua fredda logica di funzionamento.

Nelle società preindustriali, la cooperazione rappresentava la cruda e nuda necessità per la sopravvivenza. La cooperazione incarna i pilastri del cristianesimo tanto quanto dell’età dell’oro islamica, dell’Illuminismo o del New Deal. Nel bel mezzo di una depressione mondiale, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt evocò un “patto industriale”: un impegno a salari dignitosi e il diritto di lavorare per tutti. Durante gli anni ’60, Martin Luther King Jr, ha dato voce all’idea più ampia quando ha detto che nessuno è libero finché non siamo tutti liberi. In occasione della Giornata della Terra del 1970, il senatore del Maine negli Stati Uniti di America Edmund Muskie ha proclamato che l’unica società a sopravvivere sarà quella che “non tollererà i quartieri disastrati per alcuni e le case decenti per altri … aria pulita per alcuni e sporcizia per altri”. Infatti, da questa prospettiva viene postulato che si dovrebbero chiamare queste idee quello che sono: intuizioni centrali della civiltà. Al riguardo si può sintetizzare che l’economia del bene comune postula che la prosperità sociale ed economica dipenda dal benessere di tutti, non solo di pochi.

Interpretando la storia alla luce di queste idee si potrebbe considerare che le culture che si sono discostate significativamente da questa consapevolezza di solito, alla lunga, non sono andate bene, dall’Impero Romano al nazismo o allo stalinismo. Forse il capitalismo neoliberista e la sua cultura potrebbe essere il prossimo perché tale sistema, infatti, piuttosto che riconoscere l’infinita varietà di mediazioni che devono essere messe in atto per rendere possibili i nostri risultati individuali, si basa sull’affermazione immatura che i privilegi dei privati siano “guadagnati”, resi possibili, principalmente, dalla loro iniziativa.

Ma per riconoscere quanto risulta puerile una tale pretesa non è necessario essere un marxista. Basterebbe chiedersi, con una certa retorica religiosa, dove saremmo senza il lavoro e la cura degli altri? Senza la rete per la distribuzione dell’elettricità, senza il sistema di distribuzione dell’acqua potabile e senza le reti fognarie, senza l’assistenza sanitaria pubblica, l’istruzione pubblica e centinaia di altre cose che ci vengono fornite, giorno dopo giorno, spesso gratuitamente e regolarmente senza che noi sappiamo cosa sia stato necessario per la loro esistenza? Vedendoci come individui apparentemente liberi di fluttuare risulta sia facile che conveniente abbandonarsi all’illusione o al delirio delle affermazioni del tipo “sì è fatto una fortuna da solo”. La logica dell’attenzione limitata all’individuo può effettivamente essere vista come un servizio incondizionato al potere: se coloro che hanno privilegi e ricchezza presumibilmente se li sono guadagnati, allora anche coloro che vivono nella difficoltà e nel dolore meritano ugualmente loro la loro condizione.

Il sacro PIL del pensiero economico convenzionale

Nell’interpretazione fatta dall’economia del bene comune, nella cultura del capitalismo neoliberista, vecchi e giovani, nel frattempo, avvertono la perdita di un patrimonio culturale che trascende il privato, cultura che avrebbe inoltre uno scopo al di là del marketing del sé. Nella loro interpretazione suggeriscono che probabilmente temiamo non poter più fare affidamento sugli altri per conservare un lavoro coerente, una comunità stabile, un po’ di amore e gentilezza. Stando a loro, abbiamo paura del cambiamento e delle conseguenze del nostro consumo vorace, temiamo la solitudine e la depressione, il troppo lavoro, la perdita del lavoro, i debiti. Suggerendo che sentiamo, e spesso sperimentiamo, che badando solo sé stessi tiriamo fuori il peggio di noi in una lotta feroce di tutti contro tutti. Al di là delle divergenze ideologiche risulta palese che viviamo il disagio di una cultura in difficoltà.

Stando a Dirk Philipsen, il pensiero economico convenzionale semina e alimenta la paura sottostante, indottrinando le popolazioni con il credo che siamo tutti, per natura di specie, in una corsa per competere per risorse limitate. Lui ci ricorda che effettivamente la maggior parte delle definizioni tradizionali dell’economia si basano su alcune versioni della definizione di Lionel Robbin del 1932 che definiva l’economia come “l’allocazione efficiente di risorse scarse”. La risposta alla scarsità, unita al presunto desiderio delle persone di avere sempre di più, sarebbe, ovviamente, continuare a produrre cose. Non sorprende che la stella guida per il successo, sia dei politici che degli economisti di tutto il mondo, sia una metrica grezza, anche se conveniente, il sacro PIL, che altro non fa che contare indiscriminatamente la produzione finale di più cose, indipendentemente dal fatto che si possa formulare un giudizio sulla sua pertinenza o meno e nonostante la continua insostenibilità di tale crescita.

Philipsen considera che la logica del PIL sia una logica circolare: (1) la scarsità farebbe sì che le popolazioni, per inclinazione naturale, abbiano bisogni infiniti e, quindi, l’economia sarebbe costretta a crescere; (2) affinché l’economia cresca, le popolazioni devono avere sempre più bisogni. In effetti, tale pensiero domina il campo dell’economia e gran parte della cultura moderna e contemporanea, identificate con l’idea dell’uomo come l’ottimizzatore senza fine dell’interesse personale, sostenitrici di una visione in cui la specie viene ridotta a popolazioni di produttori e consumatori. In breve, una cultura in cui tutti gli aspetti della vita che vanno oltre il mero accumulo di cose – moralità, gioia, cure – vengono limitate alla narrativa e all’occasionale corso di etica al liceo o all’università. Il risultato è quello che Nicholas Kristof  ha chiamato una “miopia morale” che minaccia di collassare sotto un mucchio di cose sempre più numerose. In questa prospettiva della realtà istituzionale e convenzionale come una costruzione sociale, disfunzioni come il cambiamento climatico, il razzismo e la disuguaglianza non sono caratteristiche naturali della vita. Al contrario, si basano sulle finzioni e sui fallimenti del “privato” che in seguito si sono trasformati in sistemi che ora governano le nostre vite.

In realtà, come avrebbe documentato la premio Nobel per l’economia 1990 Elinor Ostrom nel suo libro Governing the Commons, noi collaboriamo, organizziamo insieme, dimostriamo amore e solidarietà nel processo di creazione di regole e valori condivisi che organizzano la vita comunitaria. Facciamo affidamento sulla società, la comunità, la famiglia, giorno dopo giorno. Eppure, la tragica disconnessione tra la nostra realtà vissuta (per quanto a volte combattuta) e l’ideologia dominante che celebra il “privato” nell’istruzione, nei mass media, compresi i film di Hollywood, spesso ci sfugge. Tuttavia, quando le grandi società, gestite da uomini d’affari che predicano il vangelo del mercato e del guadagno privato, hanno bisogno che il pubblico le salvi, pochi al potere sollevano la domanda più ovvia: perché avete bisogno di soldi pubblici per salvarvi se dovreste farlo tirandovi fuori con l’utilizzo delle vostre risorse interne16? Una domanda più profonda potrebbe essere: perché la ricchezza e il privilegio, in gran parte costruiti sul lavoro gratuito della natura e sul lavoro a buon mercato dei lavoratori, dovrebbero essere salvati, quando sono in difficoltà, proprio dalle persone altrimenti ritenute “usa e getta”?

Accenni storici sul passato della nostra organizzazione legale e sociale impostata al privato

Nel passato della nostra organizzazione legale e sociale, la particolare versione del “privato come proprietà” ebbe probabilmente le sue origini nell’impero Romano e tale versione viene provvista con la nozione di dominio assoluto, che denota il diritto ad avere il pieno controllo sulla propria proprietà. Inizialmente, tale dominio era esercitato dal capofamiglia maschio, sia sulle cose che sulle persone o, più precisamente, sulle cose, ma anche sulle persone che, in quella che fu forse la prima presa di potere legale in nome del privato vennero omologate alle cose, vale a dire bambini e schiavi.

Quando George Floyd è stato ucciso il 25 maggio 2020, ha messo in mostra a livello mondiale, ancora una volta, che la maggior parte delle persone – povere, più giovani, più anziane, nere, brune, non maschi – rimane disponibile nel regime di interesse privato. Troppo spesso vengono violate nei loro diritti nel nome appena mascherato della proprietà privata, perpetrate da chi ha il compito di difenderle, le forze dell’ordine. La tragedia del privato, in breve, non viene dal privato inteso come individuo ma dal privato in quanto proprietà, come controllo sulla terra, sulle risorse e sull’altro. Possedere fu sempre meno una questione riguardo la protezione del sé che riguardo l’esclusione degli altri. In quanto tale, consiste in una violazione logica dell'”altro sé” o, in realtà, degli altri sé. Tu contro di me o il tuo guadagno come la mia perdita. Questa prospettiva di interpretazione degli eventi ha spinto molti studiosi come Philipsen a sostenere che nel corso delle generazioni, il furto aperto del patrimonio comune sia stato mascherato come proprietà privata.

Per illustrare la sua affermazione Philipsen argomenta che nessun singolo evento, a parte la guerra, abbia creato tanta miseria in un paese come l’Inghilterra come quando chi aveva accesso alla violenza istituzionale (armi, leggi, ricchezza) privatizzò e recintò la terra di cui le persone avevano bisogno per sopravvivere. Questo processo divenne noto come “la recinzione dei terreni comunali” [enclosure of the commons17] e rappresentò una sottrazione di beni di sostentamento con molte vittime su larga scala, consentendo a una minoranza sociale, in termini di percentuale, di escludere una maggioranza dall’accesso a un patrimonio comune. Da allora il risultato sarebbe stato naturalizzato e replicato in tutto il mondo e sancito dalla legge come “i diritti di proprietà privata”.

Inoltre alla recinzione dei terreni comunali un altro aspetto essenziale per il sistema del capitale privato è stata la schiavitù, legittimato da un feroce regime di proprietà privata, che autori quali Kidada Williams avrebbero documentato in modo minuzioso accostando la schiavitù al razzismo. Il razzismo, effettivamente, come ci ricordano pensatori da C L R James18 ad Angela Davis19 a Barbara e Karen Fields20, è stato un mattone essenziale per il sistema del capitale privato.

Stando a studiosi della portata dei Nobel per l’economia Elinor Ostrom (1990) e Sen Amartya (1998), nessuna forma di governo, sociale o economica, avrebbe saccheggiato le risorse fornite dalla natura tanto quanto la proprietà privata, sebbene la proprietà statale del comunismo si sia avvicinata. Ma la povertà che ne deriva dalla creazione di tanta ricchezza mina oggi i diritti e le libertà politiche con l’esclusione violenta dai diritti umani essenziali: lavoro, reddito e risorse vitali.

Il privato come dominio sulla proprietà violerebbe, quindi, inevitabilmente il privato come integrità e libertà personale. Gli esseri umani diventano oggetti – il mio schiavo, il mio lavoratore, mio ​​figlio – e viene negato l’accesso all’essenziale della vita. Deprivandole in tal modo dall’indipendenza, il privato ridurrebbe la libertà della maggioranza, di tutti coloro che non hanno accesso a un capitale sufficiente, alle ristrette scelte fornite dal mercato al servizio della proprietà privata. Nelle parole di Amartya Sen, a loro verrebbe effettivamente negata “la capacità di realizzare il proprio pieno potenziale come esseri umani”.

Nel corso delle generazioni, il furto sfacciato del patrimonio comune [dei beni comuni] sarebbe stato travestito da proprietà privata, nascondendosi dietro contratti legali e la fredda finzione del denaro come ricchezza. Ci si abitua alle usanze, suggerisce questa storia, anche quando sfidano il pensiero razionale. Legalmente “liberati” per vendere la loro forza lavoro, i senza terra furono invece ridotti in uno stato di povertà assoluta dove divennero le “masse” riluttanti che popolavano i mulini danteschi della prima industrializzazione. La storia del privato può in questo contesto essere sintetizzata come l’avvento della libertà come scelta tra miseria o morte. La scusa per la spietatezza dell’esclusione e dello sfruttamento altrui in nome dell’interesse privato sarebbe stata sempre la stessa: la prospettiva di un futuro migliore per tutti. Oggi dovremmo chiederci: è riuscita? Si tratta di una domanda molto più difficile a cui rispondere di quanto vorrebbero proporre gli apologeti moderni come Steven Pinker21. Senza dubbio, con qualsiasi misura disponibile, il capitalismo basato sull’interesse privato ha generato ricchezza e conoscenza senza precedenti.

Questa esplosiva creazione di ricchezza, tuttavia, è arrivata, e continua ad arrivare, con un prezzo vertiginoso ed esponenziale. Alimentata da combustibili fossili, essa starebbe esaurendo e bruciando il pianeta. Radicato nell’estrazione e nello sfruttamento, il progresso capitalista porterebbe dietro di sé violenza e distruzione crescenti. Il rovescio della medaglia della civiltà sembrerebbe essere nelle parole di Philipsen, “una testimonianza di barbarie”. Crescita, espansione, sviluppo, cioè la cosiddetta lotta per vincere la scarsità avrebbe dato e preso, in larga misura, da coloro che hanno popolato la nostra terra. Stando agli studiosi dell’economia del bene comune, sarebbe oggi giunto il momento di riconoscere la carneficina che la ricchezza avrebbe creato.

L’insostenibilità della sacralità del PIL denunciata dall’economia del bene comune

Molto è stato detto su come la corsa incessante per qualcosa di più, più grande, più veloce abbia anche portato a una crisi di significato e scopo, quella che Martin Luther King Jr considerò come una crescente “morte spirituale” del vivere in una “società orientata alla cosa” piuttosto che una “società orientata alla persona”. Ma sia che si tratti di una morte dello spirito e del significato o sia che si tratti della morte effettiva della natura e delle persone, dalla prospettiva dell’economia del bene comune, tutto scaturisce da una radice comune: la semplice storia dell’interesse personale e della sua manifestazione logica, il privato. “Non dobbiamo scappare dalla Terra”, ci esorta al riguardo della logica del privato l’attivista ambientale Vandana Shiva in Oneness vs the 1%22, piuttosto “dobbiamo fuggire dalle illusioni che schiavizzano le nostre menti …” Adesso sembra di vivere in un mondo diverso che consente di affermare che qualunque cosa possa essere stata giustificata in passato per superare la povertà e la scarsità non debba avere più alcun potere. Oggi, ribaltando ogni logica convenzionale del pensiero economico, l’economia del bene comune sostiene che dobbiamo affrontare una sfida completamente diversa: anziché quella della scarsità quella dell’abbondanza.

Nel mondo moderno, più è, in realtà, meno. In effetti, come circostanziato dalla ricerca dell’economia ecologica23, i costi della crescita economica hanno iniziato a superare i loro benefici, costi ben visibili nel saccheggio dell’ambiente e nell’escalation della disuguaglianza. Secondo quest’approccio all’economia non abbiamo più bisogno di più ma piuttosto di meglio e più equamente distribuito, al fine di fornire prosperità a tutti. Collettivamente, dovremmo produrre e crescere a sufficienza perché ogni bambino, donna e uomo possa avere una vita buona e dignitosa ovunque viva. Come comunità mondiale, sappiamo di più e creiamo più di quanto sappiamo elaborare e processare. È un risultato enorme che dovremmo festeggiare e godercelo insieme, piuttosto che rimanere sulla via deplorevole di contrapporsi nella corsa per avere sempre di più con il risultato che uno muore di troppo e l’altro di troppo poco.

Eppure, i nostri sistemi economici dominanti continuano a seguire l’estrazione coloniale e la brutale esclusione, creando nel processo, come denunciano molti studiosi impegnati nella sostenibilità,  due problemi esistenziali organicamente correlati: la perpetuazione (e in alcuni casi l’intensificazione) della povertà e la violazione dei limiti biofisici del nostro pianeta. Che tragica ironia il fatto che, all’inizio del 21° secolo, i dipartimenti di economia dell’istruzione superiore in tutto il mondo istruiscono ancora alcune delle nostre menti più brillanti in modelli economici semplicistici sull’allocazione efficiente di risorse scarse, piuttosto che su come costruire una buona vita in modo sostenibile sulla base dell’abbondanza di conoscenza e risorse.

Gli studiosi della sostenibilità ci segnalano che stiamo ormai superando alcune soglie storiche critiche alterando la struttura stessa della vita e creando un futuro insostenibile per le future generazioni. Philisen chiama a questo processo “barbarie 3.0”. Ci sarebbe da chiedersi se la vera tragedia del privato non stia proprio nel separare ciò che può funzionare solo quando insieme, nel processo di esclusione, individuazione, distruzione, alienazione e, di conseguenza, minando l’innata creatività e resilienza di un sistema di interazione necessariamente complesso – tra umani e umano e tra uomini e ambiente.

Si potrebbe affermare che stiamo vivendo nel bel mezzo di una transizione storica. Al riguardo i teorici della sostenibilità considerano che questa potrebbe essere l’opportunità di una decisione di importanti conseguenze. Si potrebbe scegliere di continuare ad arrancare sul nostro percorso attuale della crescita travolto da cadute successive del PIL. Se si sceglie ancora questo sistema di potere, gli studiosi dell’economia ecologica sostengono  che “il collasso è molto difficile da evitare“. Certamente, la storia di come siamo arrivati ​​qui e le opzioni per cambiare rotta sono immensamente complesse. Tuttavia, il motivo per cui il collasso sarebbe virtualmente assicurato se continuiamo sul nostro percorso attuale sarebbe, in realtà, abbastanza semplice: la logica della crescita del privato incontrollato.

Il tallone d’Achille delle economie moderne, secondo gli studiosi, è la natura esponenziale della crescita economica. Sulla base di quello che gli economisti considerano un tasso di crescita “sano” di circa il 3%, l’economia dovrebbe raddoppiare la produzione all’incirca ogni 23 anni. Se una tale crescita risulta difficile da immaginare, è perché è assurda. Immaginiamoci economie come gli Stati Uniti di America con 16 volte la produzione in 100 anni, 256 volte in soli 200 anni o 5.000 volte in appena 300 anni. C’è un diagramma nella teoria economica, segnala Kate Raworth in Donut Economics, che “è così pericoloso da non essere mai effettivamente disegnato: il percorso a lungo termine della crescita del PIL”.

Per gli studiosi dell’economia del bene comune, se si decolonizzano le metodologie dell’economia, le scelte e il percorso dovrebbero essere diversi.24 Stando a loro, invece, dovremmo chiederci, cosa apprezziamo veramente e come lo misuriamo. L’approccio dell’economia del bene comune mette in luce un insieme di valori molto diverso da quelli, basati sulla proprietà privata e sul guadagno privato, che dominano le economie moderne oggi – non l’efficienza ma la salute e la resilienza; non la linea di fondo ma il benessere collettivo. Si basano sull’affermazione morale di base che, come afferma lo studioso di diritto Jedediah Purdy in This Land Is Our Land, “il mondo appartiene in linea di principio a tutti coloro che vi capitano”. La maggior parte delle tradizioni di civiltà concordano sul fatto che tutti coloro che sono stati introdotti in questo mondo dovrebbero avere la stessa pretesa di prosperare. Se seguiamo queste tradizioni, dobbiamo concludere che le culture “già suddivise” nella proprietà privata e nella ricchezza sono moralmente fallite perché apprezzano il privato rispetto alle persone.

In The Value of Everything, l’economista Mariana Mazzucato indica un difetto di fondo nel pensiero economico convenzionale. Tale carenza consiste nel fatto che “fino ad ora, abbiamo confuso il prezzo con il valore”. In tal senso, economisti e responsabili politici hanno creato un sistema disconnesso dal mondo reale che privilegia le transazioni di mercato rispetto al benessere delle popolazioni e planetario. Anche la logica del valore e del guadagno è una logica circolare standard: i guadagni sarebbero giustificati perché sarebbe stato prodotto qualcosa che presumibilmente avrebbe un valore che, a sua volta, sarebbe definito dall’ammontare dei guadagni.

In base alle considerazioni di Dirk Philipsen, questo è forse il punto cruciale della nostra era tecnocratica: “diamo valore a ciò che misuriamo e quando misuriamo le cose sbagliate, il risultato è perverso”. Oggi, ciò che, in base ai valori finora apparentemente condivisi circa la vita umana, conterebbe di più per una vita prospera non è affatto considerato e contabilizzato nei nostri principali indicatori di performance economica. Un ambiente naturale che continui a fornirci aria e acqua di qualità, terreno fertile, non è un traguardo tenuto in considerazione. Comunità che educhino e nutrano i propri membri non costituisce un valore tenuto effettivamente in considerazione. Forme di governance con un grado di responsabilità stabile non conterebbero. Alla fine, sembra che la nostra capacità di continuare la vita sulla Terra sia qualcosa che pare non conti. In proposito, riflette Lorenzo Fioramonti in Wellbeing Economy, abbiamo un sistema economico “che non vede alcun valore in nessuna risorsa umana o naturale a meno che non venga sfruttata”. Il risultato è ciò che la storica della medicina Julie Livingstone chiama “crescita auto-divorante”. Le triple sfide del cambiamento climatico, della pandemia e del razzismo sistemico evidenziano i difetti sistemici più profondi.

Nonostante questi “disvalori” sistemici, forse non sia realistico aspettarsi che gli individui facciano scelte più intelligenti quando il ragionamento economico dominante li premia proprio per essersi mossi nella direzione del privato. Lo si vede ogni anno quando studenti di talento devono affrontare scelte limitate per il loro futuro: diritto societario, consulenza finanziaria, medicina altamente specializzata. Sì, certamente, si può costruire un futuro spillando gli investitori, assuefando i consumatori a sempre più prodotti o facendo carriera mentendo al pubblico, rendendo, in questo modo, virtualmente impossibile per coloro che cercano un futuro sostenibile e una vita equilibrata pagare le bollette.

L’economia della ciambella o della prosperità condivisa entro i confini biofisici

L’urgenza di adesso potrebbe invece richiedere un cambiamento nella logica operativa, un sistema che supporti i valori fondamentali per una vita fiorente: salute, diversità e resilienza. Questa prospettiva si potrebbe chiamare il modello della “prosperità condivisa entro i confini biofisici” o, come dice Raworth, “economia della ciambella” [Donut Economics] . In qualunque modo la si chiami, abbiamo bisogno di un’economia incentrata sulla prosperità condivisa, piuttosto che sulla chimera che più soldi, in qualche modo, un giorno, magicamente, ci porteranno lì. Sarebbe un riconoscimento semplice e deciso della realtà.

Al di là di ciò che sia possibile forse dovremmo chiederci cosa vogliamo effettivamente. Forse la tragedia più profonda del privato non sia nemmeno la distruzione della nostra casa comune in nome dell’interesse personale ma perdere l’opportunità della storia, non riuscire a realizzare ciò che i pensatori del passato potevano solo sognare: una vita emancipata dal bisogno e dalla scarsità. Tale sarebbe una cultura in cui “l’amore per il denaro come possesso”, nelle parole di John Maynard Keynes stesso nel 1930, “sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali”.

Secondo Tim Jackson, le culture moderne non riescono ad immaginare una “prosperità senza crescita del PIL”.25 Queste culture, per la maggior parte, non si concederebbero più il permesso di sognare e lottare per una vita diversa – e forse più vivibile – da quella proposta dal modello capitalista che idolatra una grandezza passata e un realismo che non è mai esistito. Non riescono ad immaginare una prosperità senza la fatica del lavoro salariato e la triste riduzione della vita all’analisi costi-benefici. Potrebbe essere una vita immaginata da teorici come Adrienne Maree Brown in Emergent Strategy e dai giovani attivisti dell’International Indigenous Youth Council26, dal Movement for Black Lives dal movimento globale per la giustizia climatica e ambientale Fridays for Future, dai giovani ambientalisti raggruppati nel Sunrise Movement o dalla Wellbeing Economy Alliance che raggruppa organizzazioni, movimenti e individui impegnati nello sviluppo di un modello economico centrato sulla vita. Le persone in queste organizzazioni immaginano la vita all’interno di comunità stabili e sane, rispettose della differenza. Immaginano economie rigenerative e senza emissioni di carbonio, comunità che offrono un lavoro significativo a tutti coloro che lo desiderano. Hanno redatto proposte politiche sofisticate  e hanno scritto resoconti dettagliati di una possibile economia del benessere. Stanno combattendo per quello che la studiosa dei movimenti cosiddetti di sinistra Amna A. Akbar ha definito un sistema di governance “la cui principale fedeltà sia ai bisogni delle persone anziché al profitto”. In breve, se si ritrovasse la nostra sovranità personale e collettiva, forse si potrebbe, in solidarietà gli uni con gli altri, costruire una società fiorente per il bene comune e non solo per pochi eletti.

Certamente, data la nostra attuale situazione globale, la tentazione è di respingere tutti questi pensieri come idealisti e ingenui. Eppure, se si presta molta attenzione, i segni di nuova vita stanno incrinando ovunque l’edificio del vecchio, come ci ricorda la teorica sociale Patricia Hill Collins. I millennial tedeschi hanno sfidato i loro anziani con la missiva Ihr habt keinen Plan (2019)27 [Non avete un piano], e poi si sono proposti di costruire una visione che sia promettente per le generazioni future. L’intellettuale dell’economia del bene comune Rutger Bregman ci chiede di smetterla definitivamente di difendere l’indifendibile. Il suo libro Utopia for Realists si basa su una profonda consapevolezza: molte utopie sono più realistiche della realtà attuale, non importa quanto quest’ultima sia difesa come unica opzione da chi possiede e ostenta abiti, titoli universitari impressionanti e grandi conti bancari.

Molti sostengono che abbiamo bisogno di un ampio dialogo sul mix di politiche che potrebbero funzionare al meglio per promuovere il bene comune e superare la tragedia del privato. Una nuova libertà dovrebbe annidarsi nelle realtà della natura e nei diritti degli altri e i limiti verrebbero riscoperti28 come essenziali per tale libertà. Ciò richiederebbe transizioni difficili: allontanarsi dai combustibili fossili o dal consumo di carne prodotta in serie o dall’accettazione di una disuguaglianza dilagante. Sì, un futuro di benessere sostenibile renderebbe obsolete molte abilità e professioni, probabilmente eliminando più posti di lavoro di quanti ne sostituisca, aprendo opportunità per settimane lavorative più brevi per tutti. Tra i tanti possibili percorsi da seguire gli studiosi segnalano che sarebbero essenziali le seguenti funzionalità principali:

  • normative locali, nazionali e internazionali che impediscano il superamento di soglie ecologiche critiche;
  • riparazione dei più eclatanti fallimenti del mercato attraverso la contabilità dei costi reali, valutando adeguatamente il lavoro essenziale, ponendo fine alla privatizzazione dei guadagni e alla socializzazione dei costi e compensando i servizi ecosistemici essenziali e l’economia dell’assistenza29;
  • mettere a disposizione di tutti i servizi di base e il reddito di base (potremmo definirla una verità ovvia che tutti i terrestri hanno un diritto inalienabile alle precondizioni di una vita che consenta un percorso a favore dello slancio vitale);
  • accesso al lavoro per tutti, perché tutti meritano l’opportunità di dare un contributo significativo;
  • un riconoscimento morale di base che niente – né razza, né nazione, né genere, né contributi personali, né il proprio codice postale – dovrebbe mai essere causa legittima di povertà estrema o ricchezza eccessiva;
  • e, fondamentalmente, un riconoscimento di base che non possediamo o controlliamo questo pianeta ma semplicemente lo prendiamo in prestito “dalla prossima settima generazione”30, quelli che verranno dopo di noi.

Alla fine, per l’economia del bene comune sarebbe ora di riscrivere la sceneggiatura. Un clima in profonda crisi, una pandemia globale, il razzismo sistemico e la disuguaglianza farebbero tutti parte integrante dello stesso copione, la tragedia del privato, aggravata dall’incapacità e riluttanza dell’élite di contemplare un futuro migliore. Anche se il ristretto egoismo, quando elevato a ideologia al servizio del privato, avrebbe ripetutamente portato le società sull’orlo del disastro, finora siamo sopravvissuti in gran parte grazie alla nostra capacità di cooperare. Sarebbe giunto il momento di rendere la nostra peculiare capacità umana di creare e cooperare parte delle nostre strutture di governance, parte della logica operativa delle società postmoderne31. Forse allora possiamo dare vita a ciò che gli altri potevano solo immaginare: un sistema incentrato sul benessere delle persone e del pianeta, affrancando le nostre capacità individuali e collettive.

______________Note _________________

1 Sen Amartya. Development as Freedom. Alfred Knopf, New York, 1999

2 Dirk Philipsen. The Little Big Number: How GDP Came to Rule the World and What to Do About It. Princeton University Press, 2015

3 Ostrom, Elinor. Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action. Cambridge, UK, Cambridge University Press, 1990

4 Edgar Villanueva. Decolonizing Wealth: Indigenous Wisdom to Heal Divides and Restore Balance. Berrett-Koehler Publishers, 1st edition October 16, 2018

5 Kidada Williams. They left great marks on me: African American testimonies of racial violence from Emancipation to World War I. NYU Press, 2021

6 Kate Raworth. Doughnut economics: Seven ways to think like a 21st-century economist. Random UK, 2018

7 Jedediah Purdy. After Nature: A Politics for the Anthropocene. Harvard University Press, 2015 / Jedediah Purdy. This Land Is Our Land: The Struggle for a New Commonwealth. Princeton University Press, 2019

8 Patricia Hill Collins. Intersectionality as Critical Social Theory, Durham: Duke University Press, 2019

9 Adrienne Maree Brown. Emergent Strategy: Shaping Change, Changing Worlds. AK Press, 2017

10 Rutger Bregman. Utopia for Realists: The Case for a Universal Basic Income, Open Borders, and a 15-hour Workweek. De Corresponder, 2016

11Lorenzo Fioramonti. Un’economia per stare bene. Dalla pandemia del Coronavirus alla salute delle persone e dell’ambiente. Chiarelettere, 2020

12 Maria Mazzucato. The Value of Everything: Making and Taking in the Global Economy. Public Affairs, 2018 / Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Laterza, Roma-Bari, 2018

13 Edward Osborne Wilson. The Social Conquest of Earth. Liveright Publishing Corporation, New York, 2012 Tr. it., La conquista sociale della terra. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013

14 Garret Hardin. The Tragedy of the Commons. The population problem has no technical solution, it requires a fundamental extension in morality. In “Science”, Vol. 162, 13 December 1968

15 I beni comuni sono le risorse culturali e naturali accessibili a tutti i membri di una società, compresi materiali naturali come l’aria, l’acqua e una terra abitabile. Queste risorse sono mantenute in comune, non di proprietà privata. In economia, per tragedia dei beni comuni, o collettivi, si intende una situazione in cui diversi individui utilizzano un bene comune per interessi propri e nella quale i diritti di proprietà non sono chiari, sicché non è garantito che il beneficiario della risorsa ne sosterrà anche i costi. Le inefficienze indotte da questa situazione hanno portato a coniarne il termine, introdotto nel 1968 da Garrett James Hardin nel suo famoso articolo dall’omonimo titolo, pubblicato sul vol. 162, nº 3859 di quello stesso anno dalla rivista Science. Stiamo entrando decisamente nell’era dei beni comuni, una fase della storia dell’umanità che da un certo punto di vista è inedita (per le dimensioni del problema certamente) ma dall’altra rappresenta un ritorno all’antichità, quando le risorse economiche delle comunità di raccoglitori e cacciatori erano con ogni probabilità gestite comunitariamente dai gruppi. Oggi, e ancor più domani, i beni economici e sociali decisivi per la qualità della vita sulla Terra e forse per la sua stessa sopravvivenza sono e saranno beni che utilizziamo contemporaneamente in tanti, tutti in alcuni casi (ad esempio, lo strato di ozono), e che sottostanno a leggi ben diverse da quelle che regolano la produzione e il consumo dei beni privati, quelli studiati dalla scienza economica in questi due secoli. In questa nuova-antica era, la regola saranno i beni comuni, l’eccezione i beni privati. Il più grande cambiamento della società globalizzata e post-moderna ha proprio a che fare con il tema dei beni comuni, che stanno diventando la regola, non l’eccezione. Siamo infatti entrati nell’epoca dei beni comuni. Oggi la qualità dello sviluppo dei popoli e della Terra dipende sicuramente da scarpe, frigoriferi e lavatrici (i classici beni privati) ma molto più da beni (o mali) comuni come i gas serra, lo sfruttamento delle risorse naturali o lo stock di fiducia dei mercati finanziari (la crisi finanziaria può anche essere letta come una tragedia del bene collettivo fiducia), da cui dipendono poi anche i beni privati. È allora ormai molto evidente che i beni comuni strategici dell’umanità sono sempre più decisivi e per questo soggetti a tensioni: dall’energia all’acqua, dall’ambiente alla sicurezza, dalle foreste agli oceani, tutti tipici beni comuni. Se non saremo capaci di inventarci nuovi sistemi che tengano assieme libertà e beni comuni, il rischio grande è che si rinunci ad uno dei due poli della tensione (o alla libertà individuale o ai beni comuni stessi), uno scenario ovviamente molto triste. Possiamo, e dobbiamo, cercare nuove vie.

16 Bootstrap è una raccolta di strumenti per la creazione di siti e applicazioni per il Web. Essa contiene modelli di progettazione basati su HTML e CSS, sia per la tipografia, che per le varie componenti dell’interfaccia, come moduli, pulsanti e navigazione, così come alcune estensioni opzionali di JavaScript.

17 Con il termine enclosures ci si riferisce alla recinzione dei terreni comuni a favore dei proprietari terrieri della borghesia mercantile avvenuta in Inghilterra tra il XIII ed il XIX secolo. Per Common land [Terra Comune], nel Regno Unito, si intende un terreno di proprietà collettiva di un certo numero di persone, o di una sola persona, ma su cui altre persone hanno alcuni diritti tradizionali, tali da consentire il pascolo del loro bestiame, la raccolta della legna da ardere o il taglio della torba da utilizzare come combustibile. Questa voce tratta in particolare della common land in Inghilterra, Galles e Scozia. Anche se la misura è molto ridotta a causa della recinzione delle terre comuni, rispetto ai milioni di acri che esistevano fino al XVII secolo, una notevole quantità di terra comune esiste ancora, in particolare nelle aree montane, in più di 7000 commons (aree di terreni comunali) nella sola Inghilterra.

18 Cyril Lionel Robert James. The Future in the Present, Selected Writings, vol. 1. London: Allison & Busby; Westport, Conn.: Lawrence Hill, 1977

19 The Angela Y. Davis Reader (ed. Joy James), Wiley-Blackwell, December 11, 1998

20 Barbara Fields & Karen Fields. Racecraft: The Soul of Inequality in American Life. Verso, 2012 

21 Steven Pinker. Enlightenment now. The case for reason, science, humanism and progress. Penguin Books. 2019

22 Vandana Shiva, Kartikey Shiva. Oneness vs. the 1%: Shattering Illusions, Seeding Freedom. Chelsea Green Publishing Co, 2020

23 L’economia ecologica è un approccio alla teoria economica incentrato su un forte legame tra equilibrio dell’ecosistema e benessere delle persone. Talvolta indicata come “economia verde”.

24 Linda Tuhiwai Smith. Decolonizing Methodologies. Research and Indigenous Peoples. ZED Scholar, New Zealand, 2012

25 Tim Jackson. Prosperity without growth: Foundations for the economy of tomorrow. Routledge, 2009 / Prosperità senza crescita. I fondamenti dell’economia di domani. Edizioni Ambiente, 2017

26 https://indigenousyouth.org/about

27 Der Jugendrat der Generationen StiftungClaudia Langer (Hrsg.) Ihr habt keinen Plan, darum machen wir einen! 10 Bedingungen für die Rettung unserer Zukunft. Klappenbroschur, 2019

28 Giorgio Kallis. Limits. Why Malthus was wrong and why environmentalists should care. Stanford University Press, 2019

29 James Gustave Speth. The Bridge at the Edge of the World. Capitalism, the Environment, and Crossing from Crisis to Sustainability. Yale University Press, 2009

30 Il Principio della 7° Generazione consiste in un valore etico. Si tratta di pensare in avanti, per ogni nostra scelta valoriale, chiedendosi se questa scelta sarà di beneficio alle generazioni che seguono, fino alla 7° Generazione. In pratica, ci chiede di confrontarci su cosa stiamo lasciando ai giovani e ai posteri con le nostre scelte di adesso. È un principio utilizzato dagli Indiani d’America Irochesi, chiamato la Grande Legge degli Irochesi. Un concetto che esorta l’attuale generazione di esseri umani a vivere e lavorare per il beneficio della settima generazione nel futuro.

31 Christian Felber. Change everything. Creating an Economy for the Common Good. Zed Books, 2019