Le avversità come principale fonte delle nostre angosce mentali

La prospettiva della malattia ci avrebbe distratto dal parlare della fonte della maggior parte delle angosce mentali: le avversità

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27 Luglio, 2024
Tempo di lettura: 9 minuti

BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 36 • Dicembre 2020

 

Le implicazioni dell’evoluzione umana per la salute mentale

 

Le valutazioni critiche al modello che fa della depressione e dell’ansia una malattia, come le valutazioni sostenute dall’antropologia biologicista, vengono spesso accolte con ostilità dai sostenitori del paradigma della medicalizzazione della sofferenza mentale. A favore della loro posizione questi alleati della patologizzazione del normale affermano che considerare depressione e ansia come malattie riduca lo stigma che pesa sulla persona che ne soffre e le permetta, così, di non essere incolpata per la sua condizione di malata. In termine di biopolitica le conseguenze di questa posizione, che esonera non solo l’individuo ma ugualmente la comunità sociopolitica in cui abita e le sue istituzioni, risultano certamente diverse dalle conseguenze di accettare la posizione dell’antropologia evoluzionista1 che invece sostiene che la maggior parte dell’angoscia non costituisca una malattia ma una risposta evolutiva alle avversità, avversità che possono addirittura chiamare in causa la realtà sociopolitica stessa. La pertinenza di dedicare una riflessione alla questione delle afflizioni mentali nel contesto delle sofferenze socio-esistenziali dei singoli emerse con il contagio del Covid19 è più che giustificata e permette di dare voce a visioni sulla depressione e sull’ansia che portino conforto all’individuo oggi allontanato e alienato, per decreto, dalla società di riferimento.

Secondo gli antropologi evoluzionisti Kristen Syme & Edward H. Hagen, il punto di vista tradizionale della psichiatria considera le comuni afflizioni mentali, quali depressione e ansia, come malattie. Dalla prospettiva degli antropologi biologicisti,2 come si autodefiniscono Syme e Hagen, una tale interpretazione è considerata un errore colossale. Di fatto, i ricercatori di questo campo di studi sono addestrati a pensare agli umani nello stesso modo in cui pensano, o dovrebbero pensare, a scimpanzé, macachi e qualsiasi altro animale sul pianeta. Loro riconoscono che noi umani, come tutte le altre specie, ci siamo evoluti in ambienti che ponevano molte sfide, come la predazione, l’inedia e le malattie. In quanto tali, le funzioni psichiche3 umane si sarebbero ben adattate per affrontare queste sfide. Eppure, sostengono Syme e Hagen, la psichiatria ha in gran parte ignorato le implicazioni dell’evoluzione umana per la salute mentale, nonostante l’esistenza di una sotto-disciplina, la “psichiatria evolutiva” che ha, in effetti, un’influenza molto limitata.

Nella loro lettura dei fenomeni, nell’arco del tempo dell’evoluzione le specie si sono adattate ai loro ambienti tramite il processo di selezione naturale. In questa prospettiva, tutte le mutazioni genetiche casuali che hanno effetti corporei o psicologici che aumentano le possibilità di riproduzione di un individuo hanno avuto maggiori probabilità di essere trasmesse e di aumentare di frequenza attraverso le generazioni successive. I geni di cui discutono Syme e Hagen avrebbero prodotto (insieme ad altri geni) adattamenti complessi per la riproduzione e non necessariamente per aumentare le possibilità di sopravvivenza o benessere. Nella loro interpretazione della selezione naturale, una mutazione genetica che aumentasse la tendenza di un individuo a sperimentare la beatitudine e a non preoccuparsi dei nemici non sarebbe durata a lungo nel pool genetico. Gli antropologi biologicisti4 credono che questo processo incessante abbia molte ramificazioni per la ricerca sulla salute mentale.

 

Selezione naturale e salute mentale nella prospettiva degli antropologi biologicisti

In quest’interpretazione, che spiega i fenomeni sociali, culturali e psicologici come fatti o dati biologici o in analogia a questi, il primo postulato è che l’evoluzione non avrebbe modellato gli esseri umani per essere perennemente felici o liberi dal dolore. Al contrario, di fatto, avremmo sviluppato circuiti neurali del dolore perché in tale modo i nostri antenati, che avrebbero sperimentato dolore fisico in risposta a minacce ambientali, sarebbero stati in grado di sfuggire o mitigare meglio quelle minacce, riproducendosi, maggiormente, in una prole che provava meno dolore. Questo obbliga a completare la metafisica interpretativa dei fatti postulando che ci siamo evoluti per sperimentare la sofferenza tanto quanto per sperimentare il benessere.

Il secondo postulato nella lettura della selezione naturale degli antropologi biologicisti è che i membri della stessa specie siano spesso feroci concorrenti per cibo e compagni nonché trasmettitori di malattie. Per evitare concorrenti, molte specie, compreso il 70 % delle specie di mammiferi, sarebbero solitarie. La maggior parte delle specie di primati, compresi noi umani, vive però in gruppi. I vantaggi della cooperazione nella difesa contro i predatori avrebbero superato i costi della vita di gruppo, inclusi quelli dei conflitti sociali. Questi conflitti sociali sarebbero, però, la fonte di molte sofferenze emotive umane o di ciò che la psichiatria vede spesso come un disturbo mentale comune.

Un terzo postulato di questa visione dell’antropologia evoluzionista propone che l’evoluzione avrebbe modellato il corso della vita dei primati in fasi distinte e il riconoscimento di questi stadi avrebbe implicazioni per la comprensione delle diverse manifestazioni del disturbo mentale e del conflitto. Per semplificare le cose, la “fase giovanile” comporta una rapida crescita del corpo e del cervello. Durante questa fase, le madri forniscono cibo e protezione mentre i giovani acquisiscono informazioni sul loro ambiente ecologico e sociale. Quando gli individui raggiungono le dimensioni del corpo adulto, subiscono una profonda transizione fisiologica e neurologica verso una fase di “adulto riproduttivo”. Alla fine, dopo aver raggiunto la fase riproduttiva adulta, il corpo, compreso il cervello, inizia la senescenza. Infatti, anche un individuo che è passato alla fase riproduttiva adulta ed è riuscito a evitare predatori, agenti patogeni e fame finirà per soccombere al fallimento di qualche organo critico o altro.

 

Depressione e ansia avrebbero una bassa ereditabilità e potrebbero insorgere a qualsiasi età

Seguendo le interpretazioni di Syme e Hagen e del loro paradigma dell’antropologia evoluzionista, i disturbi, compresi i disturbi mentali in psichiatria, sono causati da mutazioni genetiche, fallimenti delle funzioni fisiologiche dovute all’invecchiamento e / o da fattori ambientali. Il rischio relativo di ciascun fattore causale varierebbe nelle diverse fasi della vita. I disturbi causati da mutazioni genetiche tendono, per loro natura, ad essere altamente ereditabili ma, sono dannosi per il successo riproduttivo. Tali mutazioni sono relativamente rare nei primi anni di vita perché la selezione naturale le elimina nel tempo, sostengono questi studiosi. I disturbi causati dalla senescenza dovrebbero, ovviamente, essere rari in giovane età ma comuni in età avanzata e potrebbero altresì essere altamente ereditabili. Infine, stando a questo filone della ricerca, i disturbi causati da fattori ambientali comuni, come germi, tossine o lesioni, dovrebbero essere  relativamente comuni nel corso della vita ma non essere altamente ereditabili. Allo stesso modo, condizioni come il dolore fisico o emotivo, che sono difese contro le sfide ambientali, dovrebbero essere comuni nel corso della vita e non altamente ereditabili.

Per testare la logica di questo approccio i ricercatori hanno utilizzato i dati di un ampio studio del Brainstorm Consortium5 effettuato nel 2018 con più di un milione di partecipanti per classificare i disturbi comuni in base alla loro età di insorgenza, prevalenza ed ereditabilità. Disturbi come l’Alzheimer e il morbo di Parkinson solitamente classificati come disturbi “neurologici” piuttosto che “mentali”, risulterebbero prevalentemente più diffusi negli anziani, probabilmente a causa di senescenza. Schizofrenia, disordine bipolare e autismo, d’altra parte, sarebbero relativamente rari, altamente ereditabili e insorgerebbero durante le fasi giovanili o nella prima età adulta, suggerendo che sarebbero causati da mutazioni nei geni che regolano lo sviluppo.

Infine, e soprattutto per quanto riguarda l’argomentazione di Syme e Hagen, condizioni come depressione, ansia e disturbo da stress post-traumatico e disturbo da deficit di attenzione e iperattività, risulterebbero invece relativamente comuni durante tutto il corso della vita. In effetti, la depressione e l’ansia sarebbero i principali contributori al carico dei problemi di salute mentale. Questi avrebbero altresì una bassa ereditabilità e potrebbero insorgere a qualsiasi età. Ciò suggerirebbe che queste afflizioni siano causate, in gran parte, da fattori ambientali comuni – forse i conflitti sociali che sembra siano stati endemici nella storia evolutiva della nostra specie.

Coerentemente con le previsioni di Syme e Hagen, le documentazioni fornite dagli studi longitudinali6 negli Stati Uniti e in Europa indicano che depressione severa, disturbo da stress post-traumatico e ansia  seguono principalmente eventi avversi della vita, il che implica che spesso siano una reazione o una difesa contro tali eventi. In genere, questi eventi avversi comportano la perdita, come la morte di una persona cara, o la perdita di reddito e altre risorse. Altri eventi avversi comuni coinvolgono intensi conflitti sociali, come guerre, aggressioni fisiche e sessuali, conflitti coniugali e divorzio.

Gli antropologi biologicisti ed altri ricercatori sulla salute mentale hanno esteso queste scoperte a culture non occidentali. Uno studio in Nepal7, ad esempio, ha scoperto che l’esposizione a conflitti violenti era associata a una maggiore ansia successiva in una relazione dose-risposta; nel frattempo, uno status socioeconomico basso ed eventi di vita stressanti, non correlati al conflitto violento, erano associati a un aumento del rischio di depressione successiva. Allo stesso modo, uno studio longitudinale in Etiopia  ha identificato l’insicurezza alimentare come un fattore di rischio per i successivi sintomi di depressione e ansia elevati. In tutto il mondo, dalle isole del Pacifico all’Artico, le popolazioni colonizzate sperimentano rischi elevati di depressione, suicidio e abuso di sostanze, che numerosi studi collegano alla povertà, alla perdita dell’identità culturale e ai cambiamenti dirompenti nei ruoli sociali tradizionali. Le ricerche di Syme e Hagen8, basata su dati provenienti da centinaia di culture diverse in tutto il mondo, indica allo stesso modo che pensieri e comportamenti suicidi seguono i conflitti sociali, come matrimoni forzati, abusi e perdita di status.

In diverse culture le persone che cercano i servizi di sciamani e di altri guaritori locali spesso si lamentano di problemi somatici, come dolore fisico e debolezza, ma è rivelatore che in molti casi tali persone si trovino a lottare con lo stress sociale e mostrino segni classici di ciò che la psichiatria occidentale compila come ansia e depressione. Nei culti nordafricani e mediorientali di possessione spiritica, come lo Zaar in Sudan e lo Stambali in Tunisia, le donne e gli uomini di basso status che soffrono di stress sociale, compresi i conflitti con il coniuge o i genitori, mostrano sintomi somatici e depressivi che vengono interpretati come i segni della possessione da uno spirito. Il modello in tutta questa variegata ricerca globale risulterebbe lo stesso: le esperienze emotive difficili, patologizzate dalla psichiatria occidentale, tenderebbero a verificarsi in risposta a fattori di stress ambientali che minacciano l’integrità dell’io e la capacità dell’individuo di sopravvivere e riprodursi.

 

Sia il dolore fisico che psicologico svolgono nell’evoluzione la funzione di informare il soggetto che sta subendo un danno

Da una prospettiva evoluzionista risulta logico che le persone oggi mostrino forti risposte emotive negative a forme di avversità comuni durante la nostra storia evolutiva, come la perdita di status, la morte dei partner sociali e la violenza fisica. Stando alla teoria evoluzionista per sopravvivere, riprodursi e trasmettere i propri geni, gli organismi devono rispondere in modo adattivo agli ambienti pericolosi, spesso sfuggendoli e imparando a evitarli. In molti animali, sarebbero le emozioni a guidare i comportamenti. La paura, l’ansia, la tristezza e il malumore sarebbero forme di dolore psicologico che probabilmente svolgono funzioni analoghe al dolore fisico: informare l’organismo che sta subendo un danno, aiutandolo a sfuggire o a mitigare il danno e stimolarlo a imparare a evitare danni simili. In questa prospettiva, il dolore psicologico, come il dolore fisico, probabilmente si è evoluto per selezione naturale e in molti o nella maggior parte dei casi non sarebbe, di conseguenza, una malattia.

Sebbene i difensori del modello interpretativo della depressione e dell’ansia come malattie segnalino che nemmeno le spiegazioni dell’antropologia evoluzionista abbiano ridotto sostanzialmente lo stigma sulla persona che ne soffre, come sostengono Larkings e Brown, in ogni modo, si può convenire a postulare che ciò che la prospettiva della malattia avrebbe fatto sarebbe distrarci dal parlare della fonte della maggior parte dell’angoscia mentale: le avversità, spesso causate da conflitti con altri, potenti o prestigiosi, come i datori di lavoro, i compagni e i parenti.

A livello globale, la depressione appare, di gran lunga, il maggior contributore al peso della cosiddetta “malattia mentale”. Se l’ipotesi di Syme, Hagen e di altri studiosi che postula che la depressione sia una difesa adattiva ed evolutiva venisse accettata come vera, non offrirebbe ancora molte speranze per una “soluzione rapida” o per una “cura medica”. Il nostro lignaggio ancestrale ha affrontato le avversità sin da prima dell’alba dell’Homo sapiens. È vero che la moderna conoscenza scientifica ha ridotto drasticamente alcune forme di avversità, come le morti infantili. Anche il miglioramento delle norme sociali può ridurre le avversità causate dagli abusi di potere ma la realtà è che alcune avversità sono una parte inevitabile della vita umana, causata da conflitti di interesse intrattabili. Se una persona abbandona il suo partner romantico per un altro, ad esempio, questo va a suo vantaggio e a danno dell’ex partner. Non c’è modo, almeno a breve termine, di migliorare la situazione per il partner abbandonato; né esiste un modo pratico o equo per impedire che tali conflitti si verifichino.

Nelle società tradizionali, i guaritori aiutano a risolvere il disagio psicologico risolvendo i conflitti sociali piuttosto che curando i “disturbi mentali”. È plausibile che la saggezza del loro approccio sia supportata dalla teoria evoluzionistica e da una ricchezza di dati antropologici. Solo perché il dolore psicologico è spiacevole per noi stessi e per gli altri, questo non lo rende una malattia, e non si dovrebbe cercare, in primo luogo, di attenuarlo con farmaci o altri interventi medici. Considerando la questione da questa prospettiva, si dovrebbe, prioritariamente, guardare alle radici sociali delle avversità – alle iniquità, alle ingiustizie e all’egoismo individuale – e considerare se e come possiamo guidare l’angoscia mentale per aiutarci a cambiare noi stessi e la vita degli altri verso comportamenti integrativi piuttosto che dualistici ed escludenti. In ogni caso, come si palesa oggi attorno a noi con l’avversità chiamata Covid19, le nostre società mostrano un aumentato disimpegno verso le difficoltà, una semplificazione di analisi che aggrava l’avversità stessa e, fino allora, una eloquente incapacità di elaborazione di una cultura di contenimento delle iniquità e delle ingiustizie ed un’altrettanta incapacità di generare consolazione per offrirci sollievo nell’affrontare l’inevitabilità dell’avversità.

______________Note _________________

1 L’antropologia evoluzionistica è lo studio interdisciplinare dell’evoluzione della fisiologia umana e del comportamento umano e della relazione tra ominidi e primati non ominidi. L’antropologia evolutiva si basa su scienze naturali e scienze sociali.

2 Antropologi che spiegano i fenomeni sociali, culturali e psicologici come fatti o datti biologici o in analogia a questi.

3 Complesso di funzionalità della psiche ovvero attività del sistema nervoso centrale adatte a ricevere e interpretare dati e stimoli esterni determinando come risposta un certo comportamento, comprendendo sia le funzioni cognitive sia quelle inconsce.

4 Biologistico: che riguarda un’interpretazione di fenomeni sociali, politici e religiosi che è fondata sulla somiglianza con quelli vitali

6 uno studio longitudinale è uno studio di ricerca in cui la ricerca continua per un periodo di tempo più lungo e utilizza lo stesso campione in ogni fase. Questi tipi di studi sono condotti al fine di analizzare le caratteristiche o le caratteristiche in evoluzione in una popolazione. Gli studi longitudinali sono abbastanza comuni nelle scienze sociali. Ciò consente al ricercatore di studiare un singolo campione nel corso degli anni o dei mesi per trarre conclusioni.

7 Bradon A Kort, Daniel J Hruschka, Carol M Worthman, Richard D Kunz, Jennifer L Baldwin, Nawaraj Upadhaya, Nanda Raj Acharya, Suraj Koirala, Suraj B Thapa, Wietse A Tol, Mark J D Jordans, Navit Robkin, Vidya Dev Sharma, Mahendra K Nepal. Political violence and mental health in Nepal: prospective study. In “The British Journal of Psychiatry”, 201(4):268-75, Oct 2012

8 Kristen L. Syme & Edward H. Hagen. Mental health is biological health: Why tackling “diseases of the mind” is an imperative for biological anthropology in 21th century. In “Yearbook of Physical Anthropology”, Vol. 171, Issue S70, May 2020

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