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2 Novembre, 2024

Le basi neurobiologiche della collaborazione sociale e dell’odio tra noi umani

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 34 • Giugno 2020

 

La stessa chimica che favorirebbe l’amore potrebbe, in un istante, gettarci nella paura o innescare l’odio

Nel cercare di dare un senso a ciò che le nostre abilità cognitive di rispecchiamento di noi stessi definiscono, culturalmente, come esistenza, noi, umani, abbiamo sviluppato narrative fondanti delle nostre più svariate strategie di sopravvivenza. Forse, la più costituente di queste interpretazioni e legittimazioni culturali del nostro comportamento di conservazione sia quella dell’amore. Questi racconti potrebbero sembrare, ad uno sguardo poco attento, una sorta di foglia di fico predisposta per coprire una condizione umana che, in qualche modo e in certe circostanze, ci fa sentire in imbarazzo, sia riguardo ad alcune delle nostre condotte sia riguardo certe maniere dei nostri simili. Le argomentazioni umanistiche pertinenti alle possibili spiegazioni dei nostri comportamenti ci offrono numerose intuizioni per aiutarci a conoscere noi stessi. Ugualmente, le discipline a carattere scientifico, come la biologia, ci soccorrono in questo nostro impegno di voler sapere come funzioniamo e chi siamo. Le neuroscienze, oggi, ci offrono notevoli intuizioni al riguardo, innanzitutto quelle derivanti dagli studi che si coniugano con le ricerche nella biologia. Un ambito di importanti indagini è quello che cerca di proporci inedite letture sulla l’intersecazione tra neuroscienze, biologia ed evoluzione con lo scopo di istituire un racconto, al di qua della metafisica, sui possibili fattori endocrini della collaborazione sociale tra noi umani e, indirettamente, del suo fallimento. Una di queste affascinanti intuizioni è quella della professoressa di neuroscienze sociali dello sviluppo1, Ruth Feldman2, presso l’IDC Herzliya (Interdisciplinary Center Herzliya) in Israele. Stando a lei e ai suoi colleghi di ricerca, noi umani ci troveremmo sul filo di un rasoio in quanto la stessa chimica che favorirebbe il legame di amore o di accudimento potrebbe, in un battito di ciglia, gettarci nella paura o innescare, addirittura, l’odio. Anche gli studiosi H. Fisher, A. Aron, D. Mashek, H. Li, G. Strong e LL. Brown, sostengono che l’amore, come qualsiasi altra emozione, sarebbe regolato dal sistema endocrino.

La base chimica che condiziona sia la nostra inclinazione all’accudimento, all’amore, all’empatia e alla fiducia verso gli altri sia la nostra propensione a vivere nella paura e perfino la nostra tendenza all’odio, è un ormone conosciuto con il nome di ossitocina, parola che viene dal greco όρμάω, vale a dire, mettere in movimento. Infatti, la funzione di un ormone viene indicata come quella di trasmettere segnali da una cellula (o da un gruppo di cellule) a un’altra cellula (o ad altro gruppo di cellule) e perciò si definisce un ormone come un messaggero chimico, o neurotrasmettitore, prodotto da un organismo con il compito di modulare il metabolismo e/o l’attività di tessuti e organi dell’organismo stesso. In quanto ormone l’ossitocina costituisce un neurotrasmettitore di tipo proteico, composto da nove aminoacidi, prodotto dai nuclei ipotalamici e secreto nella neuroipofisi per essere immesso nel sistema circolatorio, presente in tutti i mammiferi, con la funzione di regolare organi e tessuti periferici durante il momento del parto e dell’allattamento. Oggi, a questo ormone viene attribuita anche la funzione di stimolare il desiderio sessuale e favorire l’affettività e l’empatia3. Infatti, fino a pochi anni fa, questo neurotrasmettitore era noto solamente per il ruolo svolto al momento del travaglio e dell’allattamento poiché esso facilita le contrazioni della muscolatura liscia dell’utero e, in seguito, favorisce la produzione di latte da parte dalle ghiandole mammarie. Recenti studi4, indicati come corroborati da sperimentazioni cliniche, hanno dimostrato che quest’ormone interviene, ugualmente, in molti processi della vita umana, giocando un ruolo di primo piano tanto in ambito sessuale quanto nella sfera dell’affettività, dell’emotività eppure delle relazioni sentimentali ed interpersonali.

I sistemi neurali ed endocrini alla base della nostra capacità di amare, avere paura e anche di odiare

Nel suo recente saggio The biology of love , Ruth Feldman descrive la scena paradigmatica dell’incontro della madre col neonato, segnalando che quando un bambino nasce la madre raggiante lo tiene tra le braccia e inizia, immediatamente, a scansionare il viso del neonato, accarezzandogli dolcemente i mignoli e, mentre emette ripetute vocalizzazioni di canzoni singolari, il viso della nuova madre si illumina in un sorriso affettuoso. Non ha mai avuto un bambino prima d’ora ma intuitivamente sa cosa fare. Orgogliosa, sente che riesce a prendersi cura del suo bambino. Appellandoci all’evoluzionismo si potrebbe dire che lei fa parte di una grande schiera di madri mammifere che leccano, puliscono, annusano, odorano, toccano, palpano, nutrono. I ratti attuano questo comportamento, anche le pecore e ugualmente gli scimpanzé femmine.

Stando alle ricerche della Feldman, dietro la nostra amorevole madre lattante, l’evoluzione lavora, con i suoi dispositivi grezzi, per assicurare che il legame sia cementato, il bambino trovi il capezzolo, la madre si impegni e il cervello del neonato incontri il mondo. Inizia, in questo modo, ciò che lei chiama la “danza sincrona di madre e figlio” e, con i suoi ritmi unici, si forma una relazione. Questa relazione includerà, stando alle sue considerazioni, le capacità emergenti del bambino attraverso lo sviluppo e il dialogo: chiacchiere, creazione di scenari immaginari, capacità di collaborare, sentire il dolore degli altri, comprendere le emozioni, discutere posizioni e convinzioni contrastanti, fino a quando il bambino cresce e può incontrare la madre in un rapporto adulto-adulto pieno di empatia, intimità e presa di distanza.

Tale danza sincrona, madre-bambino, prepara, seguendo le argomentazioni della Feldman e dei suoi colleghi, il terreno per i legami di appartenenza alla famiglia e della futura integrazione sociale del bambino per tutto l’arco della sua vita. prima con il padre e i fratelli a casa, con gli amici intimi a scuola, attraverso l’adolescenza e il primo amore, poi, con il mondo del lavoro e con la società e, infine, anche come genitore dei propri figli. Quelle affiliazioni, e i termini di affetto che stabiliscono, guideranno la condotta del bambino all’interno della società in generale, plasmando l’empatia, la responsabilità, la collaborazione e l’autocontrollo con cui incontrerà i suoi simili: collaboratori, vicini di casa e, anche, sconosciuti.

L’evoluzione può essere qualificata come parsimoniosa. Infatti, una volta che un trucco funziona, verrà riproposto all’infinito ed è per questa pressoché ritualità che una nuova madre e un bambino entrano nel mondo utilizzando gli schemi sociali, le abitudini, le credenze, i costumi, le paure, le speranze, le gioie e i rituali degli antenati. Si tratta di un mondo di tramandi. La famiglia, il gruppo, la tribù vive di generazione in generazione. Infatti, la resilienza, la resistenza e la durata del gruppo, imprescindibili alla sopravvivenza, si raggiungono coordinando l’azione, prima geneticamente, tra parenti e, poi, simbolicamente, con relazioni al di là del vincolo di sangue. Questa capacità di azione coordinata, stando alle ricerche della Feldman e dei suoi colleghi all’IDC Herzliya, i bambini l’acquisiscono nel contesto del corpo della madre e delle sue disposizioni uniche: il suo odore, il suo tatto, il suo ritmo cardiaco, il suo sguardo, il suo sorriso o, contrariamente, la sua tristezza e preoccupazione. Questa acquisizione, oppure la non riuscita, delle capacità di azioni coordinate, imparate dal corpo della madre, o da chi per essa, e dal suo linguaggio, poi, si espanderebbe nel tempo, nello spazio e tra le persone. Ma un’espansione così massiccia di una tale imitazione non avviene senza i suoi rischi.

Ma come farebbe l’evoluzione per garantire Fine modulo che il legame, così critico per la sopravvivenza e la continuità della vita sulla Terra, avvenga come previsto e tutti i pezzi finiscano, maggiormente, a comporre lo stesso puzzle? Dopo decenni seguendo migliaia di diadi madre-bambino, centinaia di loro sin dalla nascita fino alla giovane età adulta, il laboratorio della Feldman all’IDC Herzliya ha mappato ciò che loro definiscono come la “neurobiologia dell’affiliazione e del legame sociale”, vale a dire il campo scientifico emergente che descrive i sistemi neurali, endocrini e comportamentali che sostengono la nostra capacità di amare. I punti focali della loro ricerca, cioè il sistema dell’ossitocina, il cervello affiliativo e sociale e la sincronia biologica tra madre e figlio, sarebbero tutti, secondo questi ricercatori, contrassegnati da una grande plasticità e scolpiti, attraverso l’evoluzione degli animali, raggiungono una squisita complessità nell’uomo. E tutti poggiano su meccanismi automatici ed antichi che rischiano di trasformare l’amore in paura, addirittura in odio.

Il modello di Ruth Feldman circa la neurobiologia dell’affiliazione e del legame sociale: l’ossitocina

L’ossitocina, indicato come il primo elemento di questa neurobiologia del legame, sarebbe, a quanto documentato, un fattore importante sia per l’accettazione amorevole dell’altro sia, paradossalmente, per avere dei pregiudizi verso qualcuno. Infatti, essa viene individuata dalla ricerca come l’ormone, prodotto principalmente dai neuroni nell’ipotalamo, con la funzione di coordinare legame, socialità e vita di gruppo. Dall’ipotalamo, l’ossitocina prende di mira i recettori nel corpo e nel cervello, principalmente l’amigdala, individuato come un centro per la paura e la vigilanza, poi, prende l’ippocampo, dove si reputa risieda la memoria e, successivamente, lo striato, considerato un luogo di motivazione e ricompensa. Attraverso questi percorsi, l’ormone legante, cioè l’ossitocina, funziona, in termini metaforici, con la precisione di un neurotrasmettitore e la longevità di un ormone, raggiungendo aree lontane e influenzando ampiamente il comportamento. Al riguardo, va sottolineato che l’ossitocina viene rilasciata non solo attraverso la parte centrale del neurone, ma anche attraverso le sue estensioni, chiamate dendriti. I dendriti, nell’ordine di idee degli studi in questione, vengono innescati per aumentare il rilascio di ossitocina ogni volta che vengono invocate memorie di attaccamento5. In questo modo, i primi legami ci preparano per affrontare la vita, dove, si ritiene, noi umani continuiamo a cercare echi delle nostre prime esperienze nelle relazioni successive, sia che venissimo portati sulle spalle della madre per tutto il giorno sia che esplorassimo la natura con il padre, per rendere l’idea con due immagini ortodosse e decisamente stereotipate.

Il ricordo di questi primi attaccamenti ci aiuterebbe a rievocare uno stato che la neurobiologa Sue Carter6 chiama “immobilità senza paura”. Questi stessi ricordi consentirebbero ciò che lo psicoanalista Donald Winnicott nel 19587 descrisse come la “capacità di essere soli” in presenza di qualcuno8, in uno stato di pace, serenità e trascendenza, dove la solitudine non è solitudine. Negli studi della Feldman e dei suoi colleghi all’IDC Herzliya, è stato documentato che, durante tutta la vita, specificamente durante i periodi di formazione del legame, come ad esempio, quando ci innamoriamo o stringiamo una profonda amicizia, la produzione di ossitocina aumenta per cementare il nuovo legame, come avviene per il parto. Infatti, durante la nascita, un’ondata di ossitocina innesca contrazioni uterine e il rilascio di ossitocina avvia la montata lattea9. L’ossitocina materna viene, quindi, trasferita al bambino attraverso il latte materno, il tocco e il comportamento di accudimento amorevole. Questo ormone non solo lega madre e figlio per sempre, ma prepara, anche, il cervello del bambino a ciò che significa essere innamorati e a ciò che serve per sentirsi al sicuro. Sarebbe in questo modo che le culture “imprimono” il cervello del bambino con i distinti schemi sociali che riflettono le loro filosofie sui rapporti umani, in particolare quelli che attraversano il divario generazionale, come ad esempio, il permesso agli adulti e ai bambini di entrare in contatto diretto attraverso gli occhi e di partecipare al dialogo come se fossero pari.

L’ossitocina, in quanto un sistema arcaico, si potrebbe giudicare, funziona in modo piuttosto rozzo10. Infatti, non c’è tempo per le complessità quando il leone è alla tua porta. Stando al modello della Feldman e dei suoi colleghi all’IDC Herzliya, la molecola della ossitocina si sarebbe presumibilmente evoluta circa 600 milioni di anni fa e oltre a trovarsi in tutti i vertebrati si trova, ugualmente, in alcune specie di invertebrati. Il suo ruolo nell’evoluzione degli animali sarebbe stato quello di aiutare gli organismi a gestire la vita in condizioni ecologiche avverse. Quindi, costituiva un sistema che supportava la regolazione delle funzioni di base per il mantenimento della vita: conservazione dell’acqua, termoregolazione o bilancio energetico in specie come i Nematodi, le Ranidae eppure i Reptilia.

Con l’evoluzione dei mammiferi, l’ossitocina è stata coinvolta integralmente nel controllo della nascita e dell’allattamento. Di conseguenza, i neonati hanno acquisito funzioni e capacità di supporto alla vita, non nel contesto del gruppo ma, nell’intimità del legame madre-bambino. Ciò ha creato lo scisma principale che Ruth Feldman reputa il conflitto centrale della condizione umana: i mammiferi imparano a gestire le difficoltà attraverso le relazioni e il legame diventa il loro meccanismo chiave per la riduzione dello stress. Far nascere un mammifero, quindi, implica che l’ossitocina, il sistema stesso che sostiene la cura genitoriale, i legami di coppia, la condivisione di gruppo e il comportamento consolante, diventi, addirittura, intensamente sensibile al pericolo. L’ossitocina, secondo la Feldman, protegge dal pericolo differenziando, immediatamente, “amico” da “nemico”, in base alle sfumature del comportamento sociale.

In questa lettura, che interseca l’evoluzionismo con le neuroscienze, quando i mammiferi percepiscono lievi alterazioni del comportamento sociale, identificano l’approccio degli “altri” attivando il sistema di allarme di risposta di lotta o fuga e i loro corpi si preparano ad attaccare. Quegli “altri” potrebbero, davvero, mangiarli nei prossimi istanti, oppure potrebbero stare andando altrettanto prontamente nella loro vita sociale quotidiana in modi che sembrano strani, non familiari o addirittura irrispettosi. Ma quando la posta in gioco è così alta, perché rischiare.

Seguendo i lavori della Feldman, il sistema di ossitocina è coinvolto integralmente anche nello sviluppo dei meccanismi di difesa e attacco per la conservazione. I neuroni dell’ossitocina si trovano nelle immediate vicinanze dell’ormone di rilascio della corticotropina11 che produce neuroni sensibili allo stress nell’ipotalamo. Studi condotti sugli umani, sia quelli condotti all’IDC Herzliya sia da altri, hanno ripetutamente mostrato che la stessa ossitocina che sostiene l’amore, l’accudimento e la gentilezza, è anche alla base dei pregiudizi, della chiusura mentale e dai comportamenti di esclusione di quelli fuori dal gruppo di appartenenza, anche quando i “non appartenenti” siano semplicemente coloro che indossano una maglietta blu mentre il gruppo di appartenenza sarebbe quello costituito da coloro che indossano la maglietta rossa.

Il modello di Ruth Feldman circa la neurobiologia dell’affiliazione e del legame sociale: il cervello affiliativo e sociale

Il secondo elemento nella neurobiologia dell’affiliazione e del legame sociale è, secondo i lavori della Feldman e colleghi all’IDC Herzliya, il cervello affiliativo, vale a dire il cervello che agisce verso la creazione di legami emotivi e sociali con gli altri. La ricerca del ruolo del cervello nell’accudimento materno risale agli anni ’60 con il lavoro di Jay Rosenblatt 12 e i suoi colleghi alla Rutgers University – Newark, che desideravano tracciare le strutture cerebrali che consentivano alle madri di roditori di prendersi cura della loro prole. Dopo decenni di attento lavoro di ricerca, gli studiosi hanno avanzato una descrizione del “cervello materno dei mammiferi” sia in termini di reti neurali sia, più recentemente, di composizione molecolare. Stando al sistema del modello proposto, l’ipotalamo, in particolare l’area preottica mediale dell’ipotalamo, stimolata dall’aumento dell’ossitocina durante la gravidanza, invierebbe segnali all’amigdala e questo sensibilizzerebbe una “linea” di ossitocina-amigdala che renderebbe le madri estremamente in sintonia con i segni di sicurezza e pericolo della prole. Questa linea di costante vigilanza e preoccupazione materne verrebbe impiantata nel cervello del neonato appena nasce e, senza di esso, la fragile prole dei mammiferi potrebbe non sopravvivere.

Nelle madri umane, l’amigdala si attiverebbe quattro volte di più rispetto ai padri, stando alle conclusioni della Feldman e colleghi all’IDC Herzliya. Secondo loro, dal momento della nascita e, probabilmente, per sempre, le madri dormirebbero con la loro amigdala aperta. Per illustrare l’intreccio che si crea tra maternità e protezione, Ruth Feldman utilizza questo esempio: “Sei una madre di una quindicenne che va ad una festa. Ti fidi di lei e ti metti d’accordo con la tua migliore amica per riportarla a casa. Vai a dormire ma la tua amigdala rimane aperta. Sono le 3 del mattino e senti la porta aprirsi e i passi di tua figlia di ritorno in punta di piedi. Ti giri dall’altra parte e, finalmente, dormi sul serio”. La sua conclusione è che “amore” e “paura” diventano inseparabili nel momento in cui ami qualcuno per davvero.

Stando al modello del cervello affiliativo dei mammiferi, tuttavia, nello stesso momento in cui vengono impostati i canali per la linea di ossitocina-amigdala, l’ipotalamo, innescato dall’ossitocina, invia un altro segnale, questa volta all’area tegumentale ventrale (VTA), alla fabbrica di dopamina del cervello e allo striato, dove i recettori della dopamina abbondano e ciò rende il neonato lo stimolo più gratificante per sua madre. L’odore, la pelle morbida e il viso tondo del bambino diventano avvincenti e le madri possono passare ore a guardarlo, annusarlo e carezzarlo.

Il ruolo evolutivo del circuito ossitocina-dopamina sarebbe quello di “incollare” la madre al suo bambino in modo che possa tollerare le notti insonni, il dolore fisico e il disordine infinito. Questa linea di ossitocina-dopamina sarebbe persino incisa nei neuroni. Il nucleo accumbens13, un nodo nello striato, contiene neuroni che codificano sia l’ossitocina sia la dopamina, consentendo al cervello di combinare la motivazione e il vigore della dopamina con il focus sociale dell’ossitocina al fine di impostare il sistema di ricompensa dei genitori e, attraverso il ciclo cross-generazionale, anche il sistema di ricompensa del bambino per una vita di legami a lungo termine. Quando si interrompe la connessione tra ossitocina e dopamina e non si riesce a collegare il cervello del bambino con una vita di legami a lungo termine, i risultati sarebbero devastanti. Quando la dopamina è diretta verso obiettivi neurali non correlati alla socialità, uno dei rischi è la dipendenza o la tossicomania14, quando la dopamina e l’ossitocina sono prodotte fuori sincronia, potrebbe derivarne la depressione, come sostengono Antonio Alcaro e Jaak Panksepp .

Dunque, stando al modello del cervello affiliativo, un supposto triangolo neurobiologico, che include l’ipotalamo, produttore di ossitocina nella parte superiore per la socialità, e “le due braccia” cosiddette “spavento” e “felicità”, sta alla base della maternità dei mammiferi. Nelle specie in cui madre e padre sono genitori insieme, questo stesso sistema supporta anche la cura paterna. Recenti studi molecolari mostrano che la maternità e la paternità sono sostenute dalle stesse strutture cerebrali, sebbene con popolazioni diverse dei neuroni coinvolti. Questa rete consente alle madri dei mammiferi, dai ratti agli elefanti, di riconoscere, investire, assistere, nutrire, socializzare i loro piccoli e insegnarli a procurarsi un habitat sicuro.

Tuttavia, per noi umani, considerati da molti l’apice dell’evoluzione, questa rete neurale, nei termini in cui è concepita dal modello del cervello affiliativo dei mammiferi, risulta insufficiente per trasmettere l’immensa conoscenza, le competenze linguistiche, la cognizione sociale, le funzioni esecutive e le astrazioni mentali che abbiamo acquisito nel corso della nostra lunga storia. Il lavoro della genitorialità umana comprende, allora, diverse reti aggiuntive di ordine superiore che sono controllate dalla sede della cognizione, vale a dire la corteccia, reti che consente la pianificazione, la risonanza e la capacità di comunicare e condividere gli affetti. Tutto ciò si sovrappone alle strutture cerebrali subcorticali dando immediatezza e motivazione all’accudimento degli altri. Queste reti includono la rete dell’empatia, che sarebbe localizzata nella corteccia cingolata anteriore del cervello e nell’insula anteriore e che consente ai genitori di sentire il dolore e l’affetto del bambino in tempo reale; la rete di simulazione incarnata, che è localizzata all’interno del cervello e che attraversa l’area motoria supplementare, il lobulo parietale inferiore e il giro frontale inferiore, rete di simulazione attraverso la quale i genitori si rappresenta i movimenti e le emozioni del bambino nel proprio cervello; la rete di mentalizzazione, che include solco e circonvoluzione temporali superiori, la giunzione temporo-parietale e il polo temporale, rete di mentalizzazione che consente ai genitori di riflettere e dare significato ai segnali non verbali dell’infante; e la rete di regolazione delle emozioni, che comprende la corteccia fronto-polare e la corteccia prefrontale ventromediale, rete di mentalizzazione che aiuta i genitori a svolgere più attività, a fissare obiettivi a lungo termine e a pianificare la loro genitorialità secondo la cultura a portata di mano.

Tale sistema integrato neurobiologico di predisposizione umana per accudire la prole sostiene il compito complesso, ampio e multidimensionale di allevare i bambini umani e prepararli a una vita di impegno, operosità e coinvolgimento sociale. Poiché il periodo successivo al parto costituisce il momento di maggiore plasticità nel cervello adulto, la genitorialità umana può assumere più forme, a seconda della cultura e dell’habitat, come modalità di crescere, comunque, un bambino empatico e socievole. Inoltre, grazie al principio di parsimonia dell’evoluzione, questo stesso sistema flessibile di prendersi cura della prole e/o degli altri si è evoluto anche per supportare altri attaccamenti umani, come l’amore romantico e l’amicizia stretta, in un aggregato comprendente anche il “cervello affiliativo” umano. Altre specie di mammiferi seguono lo stesso percorso. Il dottore Larry Young, professore di psichiatria e scienze comportamentali all’Emory University di Atlanta e i suoi colleghi, studiando il monogamo arvicola delle praterie, hanno documentato che accoppiamento e genitorialità di questo mammifero roditore utilizzano gli stessi processi neurali, cellulari e molecolari, inclusa una “impronta” molecolare del bersaglio dell’attaccamento.

Il modello del cervello umano, derivato dalle ricerche segnalate, con le sue componenti antiche e avanzate, automatiche e controllate, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, garantisce una massiccia espansione dell’amore e permette a noi umani di estendere il sentimento dell’amore, ben oltre i nostri attaccamenti immediati, agli animali domestici, alla flora e alla fauna della Terra e, anche di estenderlo verso idee astratte, come patria e dio. Tutte queste forme astratte di amore possono suscitare un intenso impegno, persino il sacrificio della propria vita eppure, secondo le considerazioni della Feldman, sono tutte innescate da una molecola di nove amminoacidi che si è evoluta circa 500 milioni di anni fa e che si innalza nell’ipotalamo della madre incinta.

Con una neurobiologia così complessa alla base dell’amore umano, torniamo alla condizione umana. Ecco lo scisma: le vaste strutture cerebrali che consentono l’astrazione dell’amore oltre il qui e ora, dando senso alla sofferenza umana, ispirando la capacità di recupero di fronte al trauma e consentendo agli umani di trascendere la morte con atti di abnegazione, sono comunque collegate, tramite più segnali ascendenti e discendenti, all’antico triangolo ossitocina-amigdala-dopamina. Sia le parti antiche sia le più recentemente evolute di questa rete dell’amore, mappata dalla Feldman e dai suoi colleghi all’IDC Herzliya, si unificano in un unico sistema coeso. Da un lato, questo illumina un focolare energetico e motivazionale sotto il nostro amore (forse ciò che alcuni hanno chiamato “libido”) che può rinvigorire, energizzare e costringere i nostri impegni astratti, senza di esso, la strada della nostra vita sarebbe sconnessa dai significati di valore attribuitele dalle società umane e, quindi, risulterebbe socialmente sterile.

Tuttavia, la forza cieca e automatica dell’antico triangolo subcorticale non permette al nostro umano amore di rimanere astratto, vale a dire toccato dalla luce della ragione, temperato dalla percezione di molteplici prospettive e maturato dall’equanimità e dall’età evolutiva. Infatti, noi umani possiamo combattere per il nostro dio (o chi o che per esso) con l’intensità, la crudeltà e la miopia con cui una madre gorilla proteggerebbe il suo cucciolo dai predatori, indipendentemente dal fatto che le costasse o meno la vita. Quando si tratta dell’amore per la propria tribù, nazione, religione, il proprio codice di abbigliamento, sistema politico, la propria narrativa storica o sacre scritture, una brezza nelle foglie diventa una pantera, eoni di funzioni mentali accuratamente scolpite si fondono e, anche all’interno del triangolo amoroso automatico, la paura e l’odio prevalgono sull’empatia e sul riconoscimento dell’altro. Quasi sempre, il vincitore sarebbe l’amigdala, la sentinella sempre vigile del pericolo invadente, la fonte dell’emozione e della paura, fino alla distruzione di ogni metafisica e delle vite umane stesse.

Il modello di Ruth Feldman circa la neurobiologia dell’affiliazione e del legame sociale: la sincronia biologica tra madre e figlio

Il terzo fattore principale nella neurobiologia dell’affiliazione e del legame, mappata dalla Feldman e dai suoi colleghi all’IDC Herzliya, sarebbe la sincronia. A differenza dell’ossitocina e del cervello affiliativo, la sincronia descritta nel loro modello, non costituisce un sistema ma un processo. Eppure racconta, più o meno, la stessa storia: si è evoluto, sin dall’inizio, in una squisita complessità nell’Homo Sapiens e le sue radici evolutive si nascondono regolarmente sullo sfondo e potrebbe passare velocemente da una prospettiva positiva ad una polarità negativa, come il passaggio, in un batter di ciglia, dall’empatia amorevole dell’accudimento alla paura.

Mediante la nozione di sincronia, vale a dire del rapporto che occorre tra gli elementi costitutivi di un sistema, il modello in questione cerca di descrivere l’azione coordinata tra gli organismi al servizio della sopravvivenza e della resilienza del gruppo. Uno dei primi studiosi a cercare di interpretare su basi biologiche questo processo di sincronia fu l’entomologo William Morton Wheeler, autore dell’influente opera, The Social Insects: Their Origin and Evolution, pubblicata per prima volta nel 1928. Come molti bambini affascinati da una scia di formiche in marcia, Wheeler pervenne ad una descrizione abbastanza empirica di ciò che poteva essere considerato il meccanismo neuro-bio-sociale, più tardi denominato eusocialità, che consentiva a queste piccole invertebrate laboriose di trasportare un chicco di grano molto più grande delle loro dimensioni individuali. In effetti, un altro famoso entomologo, Edward O Wilson, sosterrà negli anni ‘70 che la loro coesione sociale avrebbe reso le formiche la famiglia più resistente tra gli invertebrati, parallelamente alla conquista umana del mondo dei vertebrati 15. Wheeler arrivò a suggerire che il coordinamento dei movimenti delle zampe tra le formiche si sincronizzava con gli altri processi neurobiologici delle formiche stesse, dal processo di trasmissione di segnale tra neuroni al rilascio di ormoni, tutto in sequenza e in ferreo rispetto delle procedure. In breve, Wilson proponeva che i movimenti delle zampe di una formica innescavano il processo di trasmissione di segnale tra neuroni nel cervello della formica successiva, generando, così, i movimenti delle sue zampe e, quindi, il processo di trasmissione di segnale tra neuroni nel cervello della terza formica e così via. Pertanto, la sua considerazione era che attraverso il coordinamento tra neurobiologia e comportamento, la forza del gruppo diventasse molto maggiore di quanto potesse suggerire la forza dei suoi membri presi in modo individuale. Lo stesso tipo di meccanismo sincrono consente a un gruppo di piccoli pesci vorticosi di scacciare uno squalo o a uno stormo di piccolissimi uccelli di intraprendere un viaggio incredibilmente complesso, di migliaia di miglia verso climi più caldi, attraversando in volo i nostri cieli serali, autunno dopo autunno. La conclusione di queste osservazioni sarebbe che l’ingegno, la potenza e l’audacia che consentono ai piccoli essere viventi di sopravvivere in condizioni difficili si trovano all’interno del gruppo e richiederebbero una totale subordinazione ai suoi ritmi. Un uccello ferito che si allontana dallo sciame morirà in inverno.

Gli umani, però, pur appartenendo alla classe Mammalia, in virtù del loro ragionamento metafisico, si sono discostati da questa sottomissione ritmica coordinata, anche se non del tutto. Nel corso della storia umana, quest’eredità evolutiva, stando alle argomentazioni di Ruth Feldman, ci ha servito bene, instillando energia e propositi durante il lavoro, la danza e gli altri riti culturali. Infatti, per millenni, gli agricoltori hanno raccolto attraverso movimenti coordinati delle mani, i marinai hanno lasciato la riva attraverso un sollevamento unificato dei remi, i credenti hanno cantato in coro nelle case di preghiera e tale attività sincrona non ha eguagliato nessun’altra nella sua capacità di instillare un senso di scopo e generare elevazione metafisica. Un gruppo che agisce all’unisono produce un’esperienza molto più grande e più alta di qualsiasi altra ottenuta in solitudine o anche in un incontro a due. Prove recenti, inclusi studi che filmano le folle da elicotteri e usano algoritmi di apprendimento automatico, mostrano che noi umani abbiamo tendenze di “gregge”, sincronizziamo i nostri passi in grandi strade, abbiniamo i movimenti mentre attendiamo in lunghe file e coordiniamo la corsa in grandi maratone. Tale sincronia delle grandi folle, che secondo il modello è sostenuta dalla molecola che ci lega, l’ossitocina, risulta, in effetti, confortante, rafforza il nostro senso di appartenenza all’umanità, una specie le cui gambe sono piantate nella sporcizia ma con teste che aspirano a raggiungere le stelle, come avrebbe detto John Steinbeck.

Tuttavia un’azione coordinata attraverso la sincronia della folla non solo ci unisce, ma ci spinge, ugualmente, a danneggiare, combattere e, infine, ad uccidere. Ravviva i soldati in battaglia e culla l’odio in svariati raduni politici. Il motto “uniti si vince” nei raduni politici invia, effettivamente, un messaggio in apparenza sottile ma apertamente minaccioso a coloro che rappresentano un pericolo reale o immaginario per i nostri cari. Siamo facilmente attivabili, dalla “paura” per separare “noi” da “loro” e per dargli la caccia con entusiasmo e zelo. I soldati ricevono un addestramento approfondito proprio per questo obiettivo in modo che, in un dato giorno cruciale, uccideranno con precisione mentre sublimano il pensiero. In questa prospettiva della sincronia del collettivo, è il gruppo che marcia, non i suoi membri. Il XX secolo ha visto innumerevoli immagini di soldati che marciavano all’unisono, calpestando una varietà di divinità, obiettivi e beni. Con i fucili poggiati alle spalle e i nostri volti indistinguibili, noi umani abbiamo adattato i movimenti coordinati delle zampe delle nostre formiche invertebrate trascurando l’umiltà, l’operosità e la previdenza delle formiche.

Cosa può, quindi, differenziare il comportamento di accudimento e il comportamento di paura, se entrambi risalgono agli stessi originari meccanismi che hanno favorito pesci, formiche e uccelli ad organizzarsi per sopravvivere attraverso azioni congiunte? Per rispondere a questa domanda, secondo Ruth Feldman, si potrebbe ipotizzare che noi umani siamo vertebrati mammiferi e, come tali, vincolati nell’intimità dalla diade dell’accudimento. Inoltre, questo vincolo ci ha predisposto in un modo diverso. L’ipotesi presa in considerazione sarebbe che la lunga storia dell’evoluzione dei primati avrebbe ampliato il nostro cervello affiliativo e sociale, allungato il periodo di dipendenza infantile, perfezionato la nostra empatia e, soprattutto, avrebbe favorito il modo unicamente umano di comunicare attraverso il viso. In effetti, i primati, in particolare gli scimpanzé, i bonobo e i gorilla, possono mostrare ammirevoli capacità sociali oltre all’accudimento prettamente parentale. Ad esempio, gli scimpanzé risolvono il conflitto aggressivo con i membri del gruppo con un comportamento consolatorio, stimolando l’ossitocina. I gorilla formano coalizioni tra grandi gruppi di parenti, indipendenti tra loro, in modo simile a un piccolo villaggio umano. Ma gli esseri umani siamo, stando agli studiosi in materia, l’unica specie che si orienta e attacca al viso. I nostri neonati si occupano selettivamente del volto umano, noi umani comunichiamo affettuosamente in una posizione faccia a faccia e siamo unici nella nostra capacità di sincronizzarci tramite il coordinamento dei segnali facciali senza contatto fisico.

Il gruppo di ricerca dell’IDC Herzliya ha studiato per anni questa sincronia della comunicazione umana faccia a faccia. Quando i partner sincronizzano lo sguardo, il sorriso o l’espressione emotiva, ciò stimola il coordinamento della risposta fisiologica. Ad esempio, madri e bambini coordinano i loro ritmi cardiaci durante i momenti di sincronia sociale. Sia le coppie madre-figlio sia i partner romantici mostrano sincronia cervello-cervello delle onde gamma durante episodi di coordinazione comportamentale. Ugualmente la sincronia delle onde alfa, nelle regioni fronto-parietali del cervello, e delle onde gamma, nelle regioni temporali, emerge durante momenti di “supporto” tra partner come tra coppie romantiche e tra amici intimi ma, addirittura, tra estranei, in particolare quando il dialogo è empatico. La sincronia faccia a faccia richiede, infatti, intimità e intenzione, invoca riflessione e consapevolezza e obbliga a compiere sforzi significativi. Quando i genitori confermano il comportamento del loro bambino in uno scambio faccia a faccia, durante il periodo delicato tra la nascita e i nove mesi di età, orientano il cervello del loro bambino verso il mondo sociale e le sue meraviglie. Quando la sincronia fallisce, per esempio, quando le madri sono depresse o quando lo stress viene acuito dalla povertà, dalla guerra o dagli abusi, le conseguenze per il cervello affiliativo sociale possono essere devastanti e i bambini possono sviluppare psicopatologia, solitudine, condotta sregolata o disturbi affettivi che possono limitare la loro capacità di impegnarsi con i propri simili.

Ruth Feldman e il suo gruppo di ricerca all’IDC Herzliya hanno documentato, con centinaia di ore di videoregistrazioni di interazione faccia a faccia tra genitore e bambino e utilizzando magnetoencefalografia (MEG) per rilevare le attività cerebrali, che solo attraverso la sintonia facciale con il coinvolgimento del genitore, in predisposizione amorevole e di sostegno, può il bambino rallentare la paura e costruire un ponte empatico verso una realtà spesso dura, dolorosa e incurante.

Per comprendere e mitigare la sofferenza umana bisogna conoscere la neurobiologia dell’amore, cioè il modo naturale con cui il nostro cervello interpreta il mondo

Se l’umanità versa in balia di siffatte forme di “disfunzionalità” nella filiazione e socializzazione della prole, se si accetta di considerare come “disturbi” dell’affettività i comportamenti di mancata empatia con i simili oppure le condotte di aperta paura nonché di incontrollabile odio, ci si potrebbe porre la domanda se esista una soluzione alla condizione umana. Infatti, risulta legittimo chiedersi se, stabilito che l’amore sarebbe stratificato su forze cieche che reagiscono, automaticamente, in senso opposto, al minimo segno di pericolo, ci sia qualche possibilità di redenzione o se, invece, siamo legati a cicli infiniti di aggressività e distruzione.

Qualunque sguardo casuale sulla storia umana racconta una storia cupa e fornisce ampie prove per una visione senza aspettativa. Addirittura il profilo endocrino del cervello e la sua mappatura neurobiologica confermano una visione alquanto problematica, come è stato appena riportato nell’argomentazione circa la filiazione e socializzazione della prole, specificamente quando i genitori falliscono nel processo neurobiologico di fondare il legame affettivo e sociale della loro discendenza con la vita e il mondo dato il proprio disfunzionale profilo endocrino.

In ogni modo, è altrettanto legittimo chiederci come sia possibile stabilire una certa distanza dal modo naturale in cui in nostro cervello di semplici mammiferi sociali interpreta il mondo quando tale modalità costituisce una vestigia adattiva, generando sofferenza che inabilitano la propria presenza nella vita quotidiana. Certamente, risulta improbabile che sia sufficiente conoscere la nostra neurobiologia di mammiferi e il profilo endocrino del nostro cervello. Per una certa redenzione della nostra condizione umana, rinchiusa alla ricerca del piacere, sia omeostatico – fisiologico sia esternalizzato attraverso il trauma e il dolore nell’oggetto di desiderio, non basta nemmeno cercare di conoscere le nostre pulsioni più nascoste attraverso il dialogo problematico con noi stessi. Questo reinserimento empatico nei legami umani come strategia di sopravvivenza connaturale dei mammiferi, richiede anche riconoscere il volto dell’altro e, perfino, una buona dose di umorismo. Il riconoscere il volto dell’altro, ci obbliga, davvero, non solo a livello etico, come ha sostenuto Lévinas, ma a livello neuronale, a provare empatia con l’alterità, a volte dolorosa, di chi non sono io. In ogni modo, per mitigare i disagi della nostra condizione umana si rende imprescindibile conoscere il modo naturale in cui nostro cervello interpreta il mondo.

Poiché il nostro cervello, in genere, sviluppa una singola percezione del mondo che scarta tutte le altre informazioni non adatte alla “nostra storia”, sporci all’umorismo potrebbe essere una modalità di mitigare le sofferenze adattive derivate dal modo naturale in cui nostro cervello interpreta il mondo, ereditato dai genitori, confermato dai vicini di casa e vidimato dalla cultura ufficiale. Infatti, l’umorismo intreccia un caleidoscopio di immagini che non solo non sono vicine ma che non hanno mai risieduto nello stesso continente. La narrativa che abbiamo della realtà è seria e rigida, l’umorismo è contradditorio e funziona, contemporaneamente, su più livelli non adiacenti. Quindi, se la mappa emergente dagli studi della neurobiologia dell’amore risulta sconfortante, possiamo, forse, moderare il disagio conoscendo meglio il nostro profilo endocrino, cercando modalità che possano renderlo più empatico. Chissà se così potremmo riconoscere il volto dell’altro che non sono io e, con fortuna, un giorno farci una catartica risata circa la nostra condizione di mammiferi coccolosi e affettuosi e, contemporaneamente, con la testa tra le fredde stelle distanti.

 

  1. Le neuroscienze sociali rappresentano il campo di studi che si occupa del modo in cui il sistema nervoso è collegato all’evoluzione socioculturale e che indaga sulla comprensione dei meccanismi posti alla base del comportamento sociale. È la combinazione degli studi fatti sullo stato biologico e quelli sullo stato sociale, che dimostrano come il cervello e i processi sociali si influenzino a vicenda.
  2. Ruth Feldman è professoressa di neuroscienza sociale dello sviluppo e direttrice del Center for Developmental, Social, and Relationship Neuroscience all’Interdisciplinary Center in Herzliya, Israel. È anche direttrice della clinica Irving B. Harris e del suo programma per bambini e le loro famiglie. La sua ricerca si concentra sulle basi biologiche dell’affiliazione sociale, sui processi di sincronia bio-comportamentale, sul follow-up longitudinale dei neonati ad alto rischio derivanti da fattori biologici (ad es. prematurità), materni (ad es. depressione postpartum) e contestuali (ad es. legati ai traumi di guerra) sulle condizioni di rischio, sulle neuroscienze dell’empatia e sugli effetti degli interventi basati sul tocco. I suoi studi sul ruolo dell’ossitocina nella salute e nella psicopatologia sono stati fondamentali per comprendere le basi biologiche della collaborazione sociale nell’uomo. La sua ricerca sul cervello materno e paterno, la formazione di legami umani, le basi del cervello per la risoluzione dei conflitti e gli effetti della depressione materna postpartum sul cervello e sul comportamento dei bambini, ricevono sostanziale attenzione da parte degli studiosi della materia.
  3. Ruth Feldman. The neurobiology of mammalian parenting and the biosocial context of human caregiving. In “Hormones and Behavior”, Vol. 77, pp. 3-17, Jan 2016
  4. Ruth Feldman. The Neurobiology of Human Attachments. In “Trends in Cognitive Sciences”, Vol. 21, No. 2, February 2017
  5. Ruth Feldman. Sensitive periods in human social development: New insights from research on oxytocin, synchrony, and high-risk parenting. In “Development and Psychopathology”, 27, 369-395, 2015.
  6. C Sue Carter & Stephen W Porges. The Biochemistry of love: an oxytocin hypothesis. In “EMBRO Rep”, vol 14 (1), Jan 2013.
  7. Donald W Winnicott. The Maturational Processes and the Facilitating Environment. Studies in the Theory of Emotional Development. 1958. In italiano “Sviluppo affettivo e ambiente”, Armando Editore, 2013.
  8. La capacità di essere soli sarebbe, stando a Winnicott, “uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo emotivo.” È possibile ritenere che il suo corrispettivo clinico sia rappresentato “da una fase o da una seduta di silenzio” durante la quale il paziente, lungi dal resistere al lavoro analitico, sta conquistando qualcosa per sé. È anche possibile, osserva Winnicott, che in una di queste fasi o sedute il paziente sia stato capace di essere solo per la prima volta.
  9. Aril Levine, Orna Zagoory-Sharon, Ruth Feldman & Aron Weller. Oxytocin during pregnancy and early postpartum: Individual patterns and maternal-fetal attachment. In “Pettides”, Vol. 28, Issue 6, pp. 1162-1169, June 2007.
  10. Ruth Feldman, Mikhail Monakhov, Maayan Pratt, and Richard P. Ebstein. Oxytocin Pathway Genes: Evolutionary Ancient System Impacting on Human Affiliation, Sociality, and Psychopathology. In “Biological Psychiatry”, 79:174–184, February 1, 2016.
  11. L’ormone di rilascio della corticotropina, abbreviato in CRH (dall’inglese corticotropin-releasing hormone, e originariamente conosciuto come CRF, ovvero corticotropin-releasing factor), e anche chiamato corticoliberina, è un ormone polipeptidico ipotalamico, nonché un neurotrasmettitore, coinvolto nella risposta agli stress.
  12. Rosenblatt, Jay S.; Lehrman, D. S. “Maternal behavior in the laboratory rat”. In Rheingold, H. L. (ed.). Maternal Behavior in Mammals. John Wiley & Sons. pp. 8-57 New York.
  13. Il nucleus accumbens (NAc o NAcc), anche conosciuto come nucleus accumbens septi (dal latino «nucleo adiacente al setto»), è una regione del prosencefalo basale, rostrale all’area preottica dell’ipotalamo. Il nucleus accumbens e il tubercolo olfattivo collettivamente formano lo striato ventrale che è parte dei nuclei della base. È una struttura presente ad ambo i lati del telencefalo ed è situato tra la testa del nucleo caudato e la porzione anteriore del putamen; è unito medialmente al septum pellucidum. Nel suo insieme il Nucleus Accumbens gioca un ruolo importante nei processi cognitivi dell’avversione, motivazione, ricompensa e molteplici meccanismi di rinforzo dell’azione. Si pensa che giochi un ruolo importante nei meccanismi di rinforzo, nella risata, nella dipendenza, nell’elaborazione delle sensazioni di piacere e paura oltre che all’insorgere dell’effetto placebo.
  14. Mattie Tops, Sander L. Koole, Hans ljzerman, Femke T. A. Buisman-Pijlman. Why social attachment and oxytocin protect against addiction and stress: Insights from the dynamics between ventral and dorsal corticostriatal systems. In “Pharmacology Biochemistry and Behavior”, Vol. 119, pp. 39-48, April 2014.
  15. Edward O Wilson. The Insect Societies. Harvard University Press, 1971.