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11 Dicembre, 2024

Dalla “doppia presenza” al carico mentale: gli stereotipi sulle donne

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“Sei fortunata che tuo marito ti aiuti con la casa e i figli!”; “Dovresti essere grata che ti permetta di lavorare!”; “Come fai a lamentarti? Almeno hai qualcuno che ti dà una mano!” Quante volte le donne si sono sentite rivolgere queste frasi? Parole apparentemente innocue, magari dette con le migliori intenzioni da altre donne, ma che nascondono un sistema di pensiero profondamente radicato nella nostra società, basato sugli stereotipi di genere. Un sistema che considera ancora “normale” che il lavoro di cura sia principalmente sulle spalle delle donne e “eccezionale” qualsiasi supporto maschile.

La realtà dei numeri racconta una storia diversa e preoccupante. In Italia, nonostante le donne mostrino livelli di istruzione superiori, con il 65,3% che possiede almeno un diploma rispetto al 60,1% degli uomini, e una percentuale di laureate del 23,1% contro il 16,8% maschile, il loro tasso di occupazione rimane significativamente più basso, fermandosi al 55,7% rispetto al 75,8% degli uomini (dati Istat). Come si spiega questo paradosso? Il concetto di “doppia presenza”, introdotto dalla sociologa Laura Balbo negli anni Settanta, rimane tristemente attuale ed è d’aiuto per comprendere il fenomeno. Descrive perfettamente la condizione delle donne moderne, costantemente divise tra lavoro retribuito e responsabilità domestiche. I dati Eurostat confermano questa disparità: in Europa, le donne dedicano mediamente il doppio del tempo degli uomini al lavoro non retribuito. In Italia, questo si traduce in numeri concreti: 5 ore giornaliere di lavoro domestico per le donne contro 2 ore per gli uomini.

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha documentato le conseguenze di questo squilibrio sul piano professionale: solo il 55% delle donne partecipa alla forza lavoro globale, in netto contrasto con il 78% degli uomini. Ancora più significativo è il dato che mostra come le donne, schiacciate dal peso del lavoro di cura, si trovano spesso costrette a sacrificare le proprie ambizioni professionali. Non solo tendono a scegliere lavori part-time o a rinunciare a promozioni e ruoli di responsabilità, ma hanno anche una probabilità del 40% superiore rispetto agli uomini di ridurre il proprio orario lavorativo o abbandonare completamente la carriera per far fronte agli impegni familiari. Questa scelta forzata non è solo una questione di ore, ma rappresenta un vero e proprio ostacolo alla realizzazione professionale e all’indipendenza economica.

Oltre al carico fisico, esiste un aspetto spesso trascurato: il carico mentale. Si tratta di quella costante pianificazione e organizzazione delle attività domestiche e familiari che occupa uno spazio mentale significativo. Le conseguenze sulla salute mentale sono documentate: un importante studio dell’American Psychological Association ha rivelato che il 40% delle donne che bilanciano un lavoro a tempo pieno con la gestione familiare manifestano sintomi di stress cronico. Il burnout, i disturbi d’ansia e la depressione sono solo alcune delle manifestazioni di questo sovraccarico. La sensazione di inadeguatezza viene amplificata dalla pressione sociale di dover eccellere sia come professionista che come caregiver, un’aspettativa raramente rivolta agli uomini con la stessa intensità. Paradossalmente, molte donne si trovano intrappolate in un circolo vizioso dove la difficoltà nel delegare, sia al partner che a terzi, contribuisce ad aumentare il carico di lavoro. Questo fenomeno rappresenta “l’interiorizzazione di stereotipi di genere” talmente radicati nella società da essere stati assimilati come naturali.

Rinunciare alla carriera non significa solo abbandonare un’opportunità di guadagno, ma comporta una profonda perdita di identità personale. Il lavoro rappresenta infatti un pilastro fondamentale per la realizzazione personale, garantendo indipendenza e riconoscimento sociale. Quando le donne si trovano costrette a rinunciarvi, spesso sperimentano un profondo senso di insufficienza e insoddisfazione. Questo sacrificio impatta significativamente sulla percezione di sé: sentirsi intrappolate tra lavoro e responsabilità di cura può generare un senso di limitazione del proprio potenziale. La costante mancanza di tempo personale e l’impossibilità di coltivare interessi e passioni erodono gradualmente il senso di controllo sulla propria vita.

La chiave per superare questo disagio risiede nella consapevolezza che la realizzazione personale non è un lusso ma un diritto legittimo. Prendersi cura di sé non è un atto egoistico, ma un investimento che genera benefici per tutto l’ambiente circostante: una donna che sa ritagliarsi i propri spazi non solo vive più serenamente, ma diventa anche una presenza più positiva ed equilibrata per chi la circonda. È fondamentale sottolineare che prendersi cura della famiglia dovrebbe essere una scelta consapevole e condivisa, non un obbligo dettato dal genere. 

La strada verso il cambiamento richiede un intervento su più fronti: è necessario sviluppare politiche sociali più attente ai bisogni delle famiglie, garantire una distribuzione più equilibrata dei congedi parentali tra madri e padri, potenziare i servizi di assistenza all’infanzia e, soprattutto, promuovere un profondo rinnovamento culturale che superi definitivamente gli stereotipi di genere. Attraverso questi cambiamenti il lavoro di cura potrà trasformarsi da imposizione sociale a scelta libera e condivisa. Solo allora potremo dire di aver costruito una società realmente equa, dove il benessere familiare è frutto dell’impegno comune di tutti i suoi membri.

“Il talento di una donna va sprecato in assenza di denaro e di una stanza tutta per sé” – (Virginia Woolf)

 

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