Di cosa parliamo quando parliamo di Natura (prima parte)

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16 Luglio, 2022
Tempo di lettura: 6 minuti

“La trama nascosta è più forte di quella manifesta”

(Eraclito, frammento 4)

Nel faticoso e mai concluso processo di consapevolezza che costituisce il compito evolutivo imprescindibile di ciascuno di noi, la maggiore insidia è ciò che si dà per scontato. Non a caso Krishnamurti esortava a perseguire la “libertà dal conosciuto”), perché non siamo mai tanto ciechi come di fronte al noto; o a ciò che pensiamo sia tale. A proposito delle tematiche ambientali, per esempio, è interessante riflettere su alcuni punti che si tende a dare per acquisiti. Innanzitutto poniamo l’attenzione sul concetto stesso di Natura, circa il quale siamo convinti di concordare, come quando invochiamo “il rispetto della Natura”, “il ritorno alla Natura” e così via, di retorica in retorica. Se ci atteniamo alle definizioni che ne dà l’Enciclopedia Treccani ci troviamo di fronte a una pluralità di significati, nell’ambito dei quali è lecito riconoscere due filoni principali e ben distinti: 

  1.  “L’universo considerato nei suoi fenomeni, nelle sue attività, nel suo ordine, come una realtà oggettiva che l’uomo contempla, studia, modifica”.
  2.  “Il sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose inanimate, che presentano un ordine, realizzano dei tipi e si formano secondo leggi”. Seguendo questa accezione, il dato saliente è “la volontà stessa di ordine che si manifesta in quelle leggi, come principio vivo e operante, forza generatrice di tutte le cose”.

Non si tratta di parteggiare per una definizione o per l’altra, bensì di renderci conto che esse aprono a epistemologie molto differenti, con le relative conseguenze, a partire dalla teoria e dalla prassi di una disciplina data per acquisita, nell’accezione di cui si discorreva sopra, come l’ecologia. Nell’ultimo secolo la popolazione umana si è quadruplicata, con tutte le conseguenze del caso: incremento della disoccupazione, lotta per le risorse, maggiore diffusione delle malattie infettive, crescente produzione di fattori inquinanti [1] L’aumento di anidride carbonica nell’aria, ad esempio, è responsabile delle cosiddette “piogge acide”, ovvero di piogge con ph inferiore a 5, che producono effetti negativi sulle foreste, sui terreni, sulle forme di vita vegetali ed acquatiche, sulla salute umana e anche urbanistica, dal momento che producono danni a carico degli edifici. L’aumento di anidride carbonica nell’aria, ad esempio, è responsabile delle cosiddette “piogge acide”, ovvero di piogge con ph inferiore a 5, che producono effetti negativi sulle foreste, sui terreni, sulle forme di vita vegetali ed acquatiche, sulla salute umana e anche urbanistica, dal momento che producono danni a carico degli edifici., crisi della biodiversità, aumento progressivo delle temperature e dell’umidità, a causa della riduzione dello strato di ozono dell’atmosfera, “bucato” dai clorofluorocarburi. A ciò si aggiunga il persistere della pratica suicida degli allevamenti intensivi, per realizzare i quali si procede implacabilmente e ottusamente a distruggere foreste (Lymbery-Oakeshott, 2014; Foer, 2009). Su questi dati vi è sufficiente concordanza da parte degli studiosi. Tuttavia non sono univoche le contromisure proposte, quanto meno sotto il profilo dell’efficacia nel tempo. Per comprendere tali discrepanze è utile  porre una distinzione tra ecologia superficiale e ecologia profonda. La prima si preoccupa della salvezza della Natura in quanto risorsa per l’uomo; pertanto muove da motivazione antropocentriche, retaggio di un paradigma meccanicistico che legge la realtà come assemblaggio di elementi separati. L’ecologia profonda è viceversa espressione di un paradigma sistemico. Per superare la dimensione naïve, pertanto, l’ecologia ha bisogno di un solido impianto filosofico. Il modello filosofico meccanicistico e deterministico, fondato sulla separazione dei suoi elementi e sul principio di causalità lineare, ha tra i suoi postulati di base un radicale dualismo, che ha le sue radici remote in una certa interpretazione del platonismo, mentre in epoca moderna ricava la sua intelaiatura filosofica dal pensiero di René Descartes (1596-1650), meglio noto come Cartesio, alla cui cornice concettuale fornirà una coerente copertura fisico-matematica, qualche decennio più tardi, Sir Isaac Newton (1642-1727). Entrambi i pensatori si situano sulla scia del metodo sperimentale di Galilei (1564-1642) [2] e del metodo induttivo inaugurato da Francesco Bacone (1561-1626), ai quali si deve il primato conferito alla causalità lineare, deterministica, meccanicistica e unidirezionale: atteggiamento che si potrebbe considerare una semplificazione dell’aristotelismo. Il paradigma meccanicistico descrive l’Universo come un complesso macchinario, le cui parti sono isolati elementi di materia passiva, inerte e inconsapevole e i cui ingranaggi sono regolati da un rigido determinismo imperniato su leggi matematiche esatte. Il dualismo cartesiano – prendendo le mosse dalla distinzione tra res cogitans (il pensiero) e res extensa (il mondo conoscibile in quanto obiettivabile) – ha profonde implicazioni antiecologiche, a partire dalla affermazione che la conoscenza scientifica ha la funzione di “rendere noi stessi i padroni e i possessori della natura”. A Newton toccò il compito di realizzare in ambito scientifico ciò che Cartesio aveva elaborato sul versante filosofico. “Newton sviluppò una completa formulazione matematica della visione meccanicistica della natura, completando così una grande sintesi delle opere di Copernico e Keplero, Bacone, Galileo e Descartes. La fisica newtoniana, il coronamento della scienza seicentesca, fornì una teoria matematica coerente del mondo che rimase il solido fondamento del pensiero scientifico sino al XX secolo inoltrato” (Capra, 1982). Nel secolo scorso un altro modo di guardare al mondo si è progressivamente affiancato al paradigma meccanicistico, spostando l’attenzione sull’interdipendenza e sull’interrelazione dei fenomeni al fine di comprenderli meglio. Il modello utilizzato prende il nome di

Ludwig von Bertalanffy

Ludwig von Bertalanffy

paradigma sistemico, poiché si ispira alla teoria generale dei sistemi, fondata dal biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy (1901-1972), il quale definisce un sistema come “un complesso di componenti in relazione” e di fatto crea le basi per una vera e propria rivoluzione epistemologica, grazie alla quale si è giunti a comprendere che “non vi è più un oggetto completamente indipendente dal soggetto” (Morin, 1977). Che i fenomeni studiati siano fisici, biologici, psicologici, sociali, culturali [3], essi sono difatti considerati in termini di rapporti e interazioni e viene sottolineata la natura dinamica della realtà [4] “Nell’ambito della scienza cartesiana si riteneva che in ogni sistema complesso il comportamento del tutto potesse venir analizzato nei termini delle proprietà delle sue parti. La scienza sistemica dimostra che i sistemi viventi non possono essere compresi per mezzo dell’analisi. Le proprietà delle parti non sono proprietà intrinseche, ma si possono comprendere solo nel contesto di un insieme più ampio. Il pensiero sistemico è dunque pensiero ‘contestuale’ […] Infine – come ha mostrato in maniera tanto lampante la fisica quantistica – non esistono affatto delle parti. Ciò che chiamiamo una parte non è altro che uno schema in una trama inscindibile di relazioni” (Capra, 1996). Un sistema – a qualunque categoria appartenga – è una totalità integrata, le cui proprietà non possono essere ridotte a quelle delle sue componenti. L’unità è sempre superiore alla somma delle sue parti [5], le quali sono organizzate per comporre l’insieme. Ogni cambiamento nel sistema modifica ogni singola parte; e viceversa. Caratteristiche di un sistema sono l’integrazione (maggiore nei sistemi biologici), l’ordine stratificato (ovvero la presenza di livelli multipli di realtà reciprocamente interdipendenti [6]), la complessità e la presenza di articolati meccanismi di retroazione (feedback). Un sistema aperto viene mantenuto grazie all’attività complementare di due funzioni: la morfostasi, ovvero la capacità di mantenere identità e organizzazione a dispetto dei cambiamenti; e la morfogenesi, cioè la capacità di adattarsi in risposta alle richieste del sistema. Si tratta di una peculiare capacità di autoregolazione, alla cui dimostrazione si applicò Ilya Prigogine (1917-2003) – premio Nobel per la Chimica nel 1977 –, al quale  si deve la definizione di strutture dissipative in grado di auto-organizzarsi. Siamo vicini alla teoria dei campi morfici formulata dal biologo inglese Rupert Sheldrake. “I geni hanno la responsabilità di fornire i mezzi materiali della morfogenesi […] ma l’ordinamento in sé è prodotto dall’entelechia” (Sheldrake, 1981). Le ipotesi del biologo Sheldrake trovano sostegno negli studi del fisico David Bohm (1917-1992), secondo cui ogni cosa esistente costituisce la manifestazione di un ordine esplicato che trae origine da un ordine implicato che ne costituisce in un certo senso la trama ordinante (Bohm, 1980). Infatti, “nella scienza dei sistemi ogni struttura è vista come la manifestazione di processi sottostanti” (Capra, 1996).

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FINE PRIMA PARTE CONTINUA…

Note

[1] L’aumento di anidride carbonica nell’aria, ad esempio, è responsabile delle cosiddette “piogge acide”, ovvero di piogge con ph inferiore a 5, che producono effetti negativi sulle foreste, sui terreni, sulle forme di vita vegetali ed acquatiche, sulla salute umana e anche urbanistica, dal momento che producono danni a carico degli edifici.

[2]  A Galileo Galilei si deve l’applicazione del linguaggio matematico alla sperimentazione scientifica, al fine di formulare le leggi della natura.

[3]  Una delle ricadute più entusiasmanti della teoria generale dei sistemi riguarda gli isomorfismi comuni a tutti i “sistemi” indagati, che obbediscono alle stesse leggi anche se appartengono a differenti rami dello scibile. Questo fatto, a ben vedere, permette di ipotizzare un’unificazione delle scienze – senza differenze tra le scienze naturali e quelle sociali – sulla base di similarità strutturali: organizzazione, totalità, tendenza direzionale, teleologia, differenziazione. 

[4]  Si deve a Bertalanffy l’applicazione ai sistemi della qualifica di fliessgleichgewicht, che si può tradurre con “equilibrio che fluisce”.

[5]  Il pluricitato aforisma “il tutto è superiore alla somma delle parti” si deve a Christian von Ehrenfels (1859-1932), filosofo austriaco considerato il precursore della Psicologia della Gestalt.

[6]  Ogni livello di realtà rimanda a un altro livello, in un gioco di circolarità che toglie senso al concetto di “mattone fondamentale”, richiamandosi viceversa al Tutto come realtà ultima verso cui ogni cosa converge. Questa visione apre a riflessioni metascientifiche con venature metafisiche, come viene suggerito dalla teoria olografica (Talbot, 1991).

Articolo pubblicato su Enkelados, Rivista Mediterranea di Psicologia Analitica, anno IX – Numero 13/2021, pp. 81-90.

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