Di cosa parliamo quando parliamo di Natura (seconda parte)

23 Luglio, 2022
Tempo di lettura: 7 minuti

“La trama nascosta è più forte di quella manifesta”

(Eraclito, frammento 4)

SECONDA PARTE (vedi prima parte) 

Norbert-Wiener

Norbert Wiener

L’ordine implicato è primario, non attingibile attraverso i sensi, mentre l’ordine esplicato è composto di forme ricorrenti e manifeste, percepibili dai sensi: è un po’ come il rapporto kantiano tra noumeno e fenomeno. La coscienza e la materia appartengono a una totalità indivisa e sono interconnesse in termini di ordine implicato. A livello del pensiero, implicito sta a esplicito come, al livello della materia, implicato sta a esplicato. Un buon esempio di quanto andiamo dicendo si ha con la musica: se ascoltiamo una melodia in una tonalità e successivamente trasponiamo la tonalità (ad esempio dal Do maggiore iniziale saliamo di quattro semitoni, dunque la eseguiamo in Mi maggiore), la melodia sarà comunque riconoscibile: segno che percepiamo direttamente l’ordine implicato soggiacente. Potremmo dire che l’esperienza dell’ordine implicato appartenga alle prime fasi di sviluppo, quando il bambino percepisce la realtà come un flusso indiviso, guidato – direbbe Jung – dalla funzione sensazione. Successivamente, la coscienza si struttura secondo le categorie kantiane (spazio, tempo, causalità) e la memoria della ripetizione delle esperienze frammentarie genera l’illusione che tale contenuto manifesto costituisca la realtà. Così mente e corpo, che costituiscono di fatto le subtotalità di un’unica condizione, nell’ordine esplicato vengono percepite come indipendenti. La concezione junghiana della psiche è sistemica. “La psiche non può essere totalmente diversa dalla materia, giacché in tal caso come potrebbe muovere la materia? E la materia non può essere estranea alla psiche, giacché altrimenti come potrebbe la materia produrre la psiche? Psiche e materia esistono nello stesso mondo, e ciascuno ha parte nell’altra” (Jung, 1951).  Il paradigma sistemico conduce al superamento della logica aristotelica e dei suoi corollari: la causalità lineare e il principio di non contraddizione. Tale superamento è avvenuto grazie agli sviluppi della scienza della complessità e all’incontro di quest’ultima con la teoria dei sistemi. “Secondo la scienza della complessità il modo più utile per comprendere il mondo è attraverso una ‘rete di teorie’, che ci permetta di collocarci, secondo i casi, all’interno di un punto di vista o tra un punto di vista e un altro” (Trombini – Baldoni, 1999). La scienza della complessità permette la coesistenza di verità parziali ma non contraddittorie, in quanto acquisizioni momentanee e relative sulla via di un ampliamento della conoscenza. Un passaggio obbligato è innanzitutto quello verso una causalità multifattoriale. La causalità multifattoriale mantiene uno sfondo di linearità ma, per così dire, crea fertili complicazioni del quadro consentendo la compresenza di linearità multiple. Una matura assimilazione della teoria dei sistemi e della cibernetica – con l’enfasi posta sui meccanismi di retroazione (feedback) – permette di concepire una causalità circolare, grazie alla quale ogni fase di un processo può fungere da punto di partenza di una nuova fase, in un continuo gioco di rimandi. Il passaggio si compie quando diventa possibile concepire il processo causativo non come lineare (causa/effetto), ma come circolare (causa/effetto/causa/…), quindi ricorsivo (attraverso l’effetto, la causa ritorna su se stessa) […] È Norbert Wiener a introdurre, nel 1948, il concetto di feedback (retroazione): è il processo attraverso il quale una parte di un sistema o un evento ritorna a influenzare se stesso attraverso la mediazione di altre parti o eventi, formando così un ‘anello’ (loop) […] La teoria generale dei sistemi, con la sua insistenza sull’olismo e l’interdipendenza delle parti all’interno di ciascun sistema, fornisce un secondo senso al concetto di circolarità: i processi causali, invece di essere semplici e unidirezionali, si spostano e distribuiscono circolarmente tra le parti del sistema, in un intreccio di eventi lineari e retroattivi. Scompare l’univocità del rapporto causa/effetto, sostituita dal principio di equifinalità: da una causa possono derivare diversi effetti, da diverse cause un unico effetto” (Bertrando, in Telfener e Casadio, 2003).

La causalità circolare è incentrata su un serrato sistema di feedback che genera un modello di auto-organizzazione e di autoregolazione. Gli organismi, a differenza delle macchine, si auto-organizzano. È la stessa visione che ha Jung quando descrive la psiche come un sistema dinamico autoregolantesi, oscillante energeticamente tra poli opposti. In un certo senso, il punto di vista sistemico è connaturato alla psicologia junghiana, dal momento che gli archetipi sono inclusi in una rete (l’inconscio collettivo) che li interconnette tutti. Aprendo una parentesi in merito alla dimensione cosmica e  metafisica, quando l’astrofisico Erich Jantsch (1929-1980) scrive che “Dio non è il creatore, ma la mente dell’Universo“ (in Capra, 1982) ci parla della divinità non in una forma personale ma come rappresentazione della dinamica auto-organizzantesi dell’Universo. Non siamo lontani dalle vertiginose intuizioni mistiche di Teilhard de Chardin (1881-1955), gesuita, scienziato e teologo in odore di panteismo. D’altra parte, quando nel 1979 il chimico e ambientalista inglese James Lovelock descrive la Terra come un sistema vivente auto-organizzantesi (ipotesi Gaia) è sulla stessa linea dello spinoziano Deus sive Natura.  L’epistemologia della complessità, così come si configura nelle opere di Edgar Morin e di Isabelle Stengers, consente di oltrepassare il riduzionismo e di guardare alla Natura e allo Spirito come a due codici diversi di un’unica realtà. In questo modo vengono gettate le basi di quella che l’antropologo culturale Peter Harries-Jones definisce ”estetica ecologica”, sulla scia di Gregory Bateson (1904-1980), che scrive: “Per estetico intendo sensibile alla struttura che connette”[1]Sull’estetica della Natura cfr. Sant’Agostino, La Città di Dio: “Il neoplatonico  Plotino dimostra per mezzo dei fiori e delle foglie che dal Dio Supremo, la cui bellezza è invisibile e ineffabile, la Provvidenza giunge fino alle cose della terra di quaggiù”. Trasferendo questi concetti all’ambito psicoanalitico, potremmo dire che il transfert sia un esempio particolare di “struttura che connette”.  Sull’estetica della Natura cfr. Sant’Agostino, La Città di Dio: “Il neoplatonico  Plotino dimostra per mezzo dei fiori e delle foglie che dal Dio Supremo, la cui bellezza è invisibile e ineffabile, la Provvidenza giunge fino alle cose della terra di quaggiù”. Trasferendo questi concetti all’ambito psicoanalitico, potremmo dire che il transfert sia un esempio particolare di “struttura che connette”.[2]  

La discussione epistemologica che occupa gran parte di queste pagine è la premessa necessaria per una proposta ecologica che non si limiti a esprimere una romantica nostalgia dell’età dell’oro. Una epistemologia della complessità è la sistematizzazione filosofica in linguaggio moderno di felici intuizioni di grandi spiriti del passato: il Cosmo “tutto armonicamente unito e bello” (Platone), “il riflesso dell’anima nella materia” (Plotino), “la virtù divina che si manifesta nelle cose” (Giordano Bruno), il “Deus sive Natura” (Spinoza), “la connessione dei fenomeni secondo regole o leggi” (Kant), fino al mondo concepito come “ierofania” (Mircea Eliade). Anche la concezione junghiana del Sé risponde a questa logica, essendo descritto come una unità nella quale gli opposti trovano una sintesi, per cui curare la psiche è in un certo senso un atto ecologico. Parafrasando Spinoza: Anima sive Natura [3]. Riprendere l’idea platonica di Anima Mundi [4], inoltre, significa porre le basi per una relazione con il mondo, inorganico e organico, che non ce lo faccia considerare come un oggetto separato. Ciò è possibile se superiamo le opposte visioni, figlie entrambe del dualismo, che descrivono l’ambiente come privo di anima o, viceversa, la psiche come funzione unicamente umana. Dobbiamo comprendere che tutto è ambiente, non esiste un ambiente fuori di noi, un Altrove, una Natura di cui l’uomo non faccia parte. Verrebbero così a cadere sia la concezione leopardiana di Natura matrigna sia l’opposta ma ugualmente antropocentrica visione new age secondo la quale la Natura sarebbe una Madre benigna accordandosi alle leggi della quale scorrerebbero fiumi di latte e miele: un mito edenico frutto della rimozione dell’Ombra. La verità è che, essendo parti di un Tutto, non esistendo una Natura di cui l’uomo non faccia parte, è impossibile distinguere gli effetti delle azioni umane da ciò che ne sarebbe indipendente. Un punto di riferimento contemporaneo dell’ecologia profonda è il filosofo inglese Timothy Morton, nella cui cospicua produzione vengono criticate l’idea corrente di sostenibilità, cara all’ecologia superficiale, e le ricadute normative che trascinano con sé i concetti di natura e di naturale. La sua nozione più originale è quella, decisamente sistemica, di iperoggetti[5] frutto dell’evoluzione di quel ramo del realismo speculativo denominato OOO  (Object-Oriented Ontology). L’iperoggetto per eccellenza è il riscaldamento globale, evento percepito come lontano eppure conseguenza tangibile della connessione di molteplici fattori. Si può ben comprendere come l’ecologia profonda richieda una piena assunzione di responsabilità e non blande rassicurazioni su future misure di contenimento. Dopo secoli di scriteriato antropocentrismo, punto di arrivo  dell’era geologica appropriatamente denominata Antropocene [6], gli oggetti si stanno prendendo una rivincita. Si pensi alla plastica, la cui indistruttibilità porta con sé l’impossibilità di una trasformazione: dunque, simbolicamente, il segno della morte. “Se la tendenza attuale continua, questo secolo potrebbe essere testimone di cambiamenti climatici inauditi e di una distruzione senza precedenti degli ecosistemi, con gravi conseguenze per tutti noi. L’innalzamento del livello del mare, per esempio, può creare situazioni di estrema gravità se si tiene conto che un quarto della popolazione mondiale vive in riva al mare o molto vicino ad esso, e la maggior parte delle megalopoli sono situate in zone costiere” (Papa Francesco, 2015: capitolo 24).

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Note

[1] Sull’estetica della Natura cfr. Sant’Agostino, La Città di Dio: “Il neoplatonico  Plotino dimostra per mezzo dei fiori e delle foglie che dal Dio Supremo, la cui bellezza è invisibile e ineffabile, la Provvidenza giunge fino alle cose della terra di quaggiù”Sull’estetica della Natura cfr. Sant’Agostino, La Città di Dio: “Il neoplatonico  Plotino dimostra per mezzo dei fiori e delle foglie che dal Dio Supremo, la cui bellezza è invisibile e ineffabile, la Provvidenza giunge fino alle cose della terra di quaggiù”.

[2] Questa espressione coniata da Bateson è un grimaldello epistemologico che postula una “metascienza indivisibile e integrata il cui oggetto è il mondo dell’evoluzione, del pensiero, dell’adattamento, dell’embriologia e della genetica: la scienza della mente nel senso più ampio del termine”. Da questa prospettiva si comprendono i celebri interrogativi batesoniani: “Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?”

[3] Cfr. “Studi sull’alchimia” (Opere, vol. 13), in cui si mostrano le proiezioni della psiche sulla materia; e L’inno al Creatore  composto da Miss Frank Miller, le cui fantasie sono analizzate in “Simboli della trasformazione” (Opere, vol. 5).

[4] Esistono molteplici declinazioni di questa idea nella storia del pensiero umano. La filosofia occidentale la riprende a più riprese: si pensi al neoplatonismo, da Plotino a pensatori rinascimentali come Marsilio, Pico, Bruno, Campanella e successivamente Goethe, Bergson e ovviamente Jung. In Oriente vi sono forti assonanze soprattutto nel Taoismo e nell’Advaita Vedānta (Vedānta non duale), metafisica induista in cui si postula l’essenziale identità tra Ātman e Brahman (Sé individuale e Tutto).

[5] Di fatto, ogni oggetto è un iperoggetto, in quanto contenitore e contenuto al medesimo tempo.

[6] Il termine è stato coniato nel 2000 da Paul Crutzen (1933-2021), Premio Nobel per la chimica nel 1995, per indicare le pesanti ricadute delle attività umane sulla chimica dell’atmosfera./span>

Articolo pubblicato su Enkelados, Rivista Mediterranea di Psicologia Analitica, anno IX – Numero 13/2021, pp. 81-90.

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