ARTE al tempo della pandemia

Paolo Galletti intervista il regista Marco Martinelli fondatore del Teatro delle Albe
7 Giugno, 2020
Tempo di lettura: 4 minuti

PG. Questo riscoprirci specie animale vulnerabile, sorella di altre specie e fragile nonostante tecnica e scienze, cosa comporta per chi fa dell’arte la sua ragione di vita? Quali dimensioni oggi deficitarie dell’umano l’arte ci potrebbe aiutare a sviluppare?

MM. Se c’è un linguaggio capace di guardare in faccia la nostra fragilità, è il linguaggio artistico. L’arte, la grande arte, ha sempre saputo che siamo creature ferite, deboli e mortali, si è sempre misurata con l’angoscia della finitudine. Giuseppe Fornari, un filosofo di acutezza straordinaria, ha scritto un bellissimo volume su Leonardo da Vinci dal titolo emblematico: La bellezza e il nulla. Ogni tentativo dell’umanità di creare bellezza è una sfida al nulla che ci circonda, il tentativo di accendere luce nelle tenebre. Ma proprio in questa umile consapevolezza sta la necessità dell’arte ancora oggi: e quando dico “arte” non penso al mercato dell’intrattenimento, all’industria dello spettacolo nella società dello spettacolo, penso a chi, all’interno di linguaggi diversi (teatro, cinema, letteratura, arti visive etc.) fa del proprio paziente scavo quotidiano la sua “ragione di vita”, come hai detto benissimo. Humilitas, dicevano gli antichi, di questo si nutre la “conoscenza”. Mi sembra, al contrario, che la supponenza di certo sapere tecnologico, la sua pretesa di porsi – da un paio di secoli – come la nuova religione, l’ideologia vincente, la sua arroganza nel saccheggiare la natura, abbia subito in questa pandemìa un grave colpo. E meritato.

PG. Dal tuo punto di vista quanto è necessaria la conversione ecologica?

MM. Lo è dagli anni Ottanta, da quando abbiamo fondato insieme i Verdi in Italia. Che sia benedetta Greta Thunberg, e con lei tutti gli adolescenti del mondo! Era ora che una nuova generazione si ribellasse all’ideologia dello sviluppo a tutti costi, quando il costo assurdo, il prezzo feroce da pagare, è la distruzione del pianeta. Questi giovani combattono chi vuole rubare loro la speranza del futuro. La conversione ecologica è senza dubbio la prima cosa ragionevole che “l’animale razionale” dovrebbe fare.

PG. E la politica oggi per tornare a svolgere il suo ruolo a quali fonti dovrebbe abbeverarsi?

MM.  Della vera politica avremo sempre bisogno. Avremo bisogno di una politica che non sia schiava della finanza e degli interessi dei più forti. Gandhi, e non Machiavelli. E’ chieder troppo? Sì, è chiedere tanto, ma che alternativa abbiamo? Se il mondo ci andasse bene così com’è, non staremmo qui a chiedere, a perdere tempo: giocheremmo in borsa e faremmo la fila davanti ai salotti della gente che conta. Invece no, testardamente continuiamo a sfidare gli orrori delle guerre e della violenza, dell’ingiustizia e degli abusi, testardamente cerchiamo l’azzurro in mezzo alle tenebre. Ce n’erano già tante di epidemie nel nostro paese, prima del coronavirus! Proviamo a farcele sfilare davanti agli occhi: l’aver massacrato la sanità pubblica, così da trovarci totalmente impreparati all’arrivo di questa nuova calamità; il lasciare la scuola nell’abbandono, che per i padri che scrissero la Costituzione doveva invece essere “il primo bastione di difesa della democrazia”; il non contrastare il potere mafioso e la gran fetta di economia e socialità che comanda, la sua forza di espansione e corruzione; il non investire sulla cultura, perché “con la cultura non si mangia”, e non si butti la croce su chi ha tirato fuori l’infelice espressione, perché di questa opinione – al netto dei proclami ipocriti –  è l’intera classe politica, visto che, per quel che riguarda i finanziamenti in questo settore, l’Italia è penultima in Europa (ultima invece, “maglia nera”, nei finanziamenti all’educazione); e per tornare alla questione che ci sta tanto a cuore, l’ambiente, possiamo affermare che i politici sentano questo come un tema urgente, come il tema dei temi? Non mi pare. E allora, con pazienza, dobbiamo tornare alle sorgenti del fare politico che, in Grecia, alle origini della prima, imperfetta democrazia conosciuta in Occidente, nacque come riflessione filosofica sulla giustizia: la politica come arte della polis, arte del bene comune, arte della solidarietà. Possiamo sì usare i social e i mezzi che ci fornisce la tecnologia attuale, sapendo però che vanno sostanziati con altro, con studio e riflessioni profonde, con l’immersione nella concretezza dei problemi, in mezzo alle situazioni di disagio, nell’ascolto delle persone. E quest’ultimo aspetto, quello del non stancarsi mai a incontrare veramente le persone le più diverse, per mestieri e classi sociali, è forse la scommessa più grande.

PG. Il rapporto tra generazioni è uno dei nodi problematici più grandi, nell’odierna società massificata: la vostra esperienza, attraverso il teatro?

MM. Mah, quella della nostra compagnia teatrale è un’esperienza un po’ insolita, non saprei dire quanto possa “far testo”. Posso solo raccontarla: insieme a Ermanna, a Luigi Dadina e Marcella Nonni abbiamo fondato le Albe nel 1983, eravamo in quattro all’inizio, una piccola cooperativa, oggi siamo in 40. Tutti a stipendio! E se siamo diventati, nel tempo, una tribù che ha imbarcato al suo interno generazioni diverse, saperi diversi, dagli attori ai tecnici agli organizzatori, forse lo dobbiamo anche al fatto che i fondatori non hanno pensato a “far soldi”, ma hanno sempre condiviso il sapere, l’economia, le responsabilità, con i soci giovanissimi che entravano. Abbiamo tutti lo stesso stipendio “operaio”, per intenderci, e questo “dividere il pane”, come i cristiani delle origini, come certe comunità anarchiche di fine Ottocento, è il terreno più solido che io conosca per far dialogare le generazioni. “Utopia concreta”, diceva Ernst Bloch; “ecologia della mente”, si potrebbe aggiungere ricordando Gregory Bateson.

PG. E cosa mi dici, dal punto di vista del tuo osservatorio, del rapporto tra nord e sud del pianeta?

MM. Beh, sai di toccare un tema che mi sta molto a cuore. Alla fine degli anni Ottanta abbiamo cominciato a lavorare in teatro con tanti artisti africani, dal Senegal al Maghreb, e non abbiamo mai smesso, fino ad arrivare in Kenia in questi ultimi anni, con una Divina Commedia realizzata con 150 bambini e adolescenti di Kibera, il più grande slum di Nairobi. Questa pratica ci è servita tanto! Ci ha portati a guardare il pianeta da prospettive diverse: guardarlo dalla scintillante Fifth Avenue di New York è ben diverso che guardarlo dalle baracche e dalle strade piene di immondizia di Kibera, brulicanti di street children, ragazzi abbandonati o scappati di casa che per resistere ai morsi della fame inalano colla e robaccia. Eppure quanta splendida umanità abbiamo incontrato, nei nostri viaggi in quelle periferie. Papa Francesco nella Laudato sii ha giustamente e autorevolmente intrecciato la questione dell’ecologia a quella della diseguaglianza tra nord e sud del mondo: non ci salteremo fuori, se non terremo ben legate le due sfide.

Per saperne di più su Marco Martinelli

Note:

1. Nico Garrone, Quell’asinella ci salverà, “la Repubblica”, 5.5.1990, poi in Marco Martinelli, Teatro impuro, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2006, p. 304.

2. Giacomo Verde, Ravenna-Dakar. Immagini che testimoniano il viaggio del Teatro delle Albe in Senegal del 1990

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