“Abbiamo vissuto mesi drammatici ma ora la situazione è diversa: non c’è motivo di mantenere un clima di terrore nella popolazione”.
Così il dottor Stefano Manera, anestesista rianimatore che ha prestato servizio all’ospedale Papa Giovanni XXIII a Bergamo durante l’emergenza Covid, commenta l’evoluzione dell’epidemia.
Nel suo libro “Morire durante la pandemia – Nuove normalità e antiche incertezze”, fresco di pubblicazione, racconta il suo vissuto in prima linea e sviluppa diverse riflessioni sull’argomento: lo abbiamo intervistato per saperne di più.
Come è nato il suo impegno a Bergamo?
Sono entrato in servizio al Papa Giovanni il 18 marzo e ho terminato due mesi dopo. A inizio marzo Regione Lombardia ha pubblicato il bando per reclutare medici e mi sono proposto pensando di poter essere d’aiuto. È stata una decisione naturale perché ho sempre lavorato in prima linea: da quasi vent’anni sono anestesista rianimatore, lavoro nei reparti di terapia intensiva e per 11 anni sono stato al 118 a bordo dell’automedica a Milano. Inoltre ho svolto molto volontariato partecipando a diverse missioni in Africa.
E che situazione ha trovato quando è arrivato?
La mattina in cui sono partito da casa i quotidiani e i tg hanno mostrato le immagini dei mezzi militari che portavano via i feretri da Bergamo. Quando sono entrato in ospedale mi ha colpito l’atmosfera silenziosa, si sentiva solo qualche rumore ogni tanto, mentre i reparti erano pieni di pazienti e di medici che stavano facendo il massimo per far fronte all’emergenza: era una situazione di crisi e nelle prime settimane abbiamo svolto maxiemergenza e medicina di guerra. Mi hanno spiegato che il Papa Giovanni in condizioni di normalità ha quattro rianimazioni ma in quei giorni ne hanno ricavate altre due e io ho prestato servizio nella sesta che contava 15 posti letto. I pazienti erano a rischio di vita: arrivavano in continuazione e avevano la stessa manifestazione clinica.
Rifacendosi al titolo del suo libro, cosa significa morire durante la pandemia?
Pochi giorni prima di entrare in servizio avevo letto l’intervista di un amico e collega, il dottor Carlo Serini, anestesista rianimatore all’ospedale San Carlo Borromeo di Milano, che aveva raccontato di aver visto per la prima volta dei pazienti morire drammaticamente soffocati.
Mi ero domandato come fosse possibile ma poi mi sono reso conto che chi moriva nei reparti perché non si poteva intervenire con cure intensive si spegneva proprio in quel modo. Ma c’era un ulteriore dramma: le persone morivano sole, senza avere accanto i parenti che potessero assisterli e portare conforto piuttosto che capire cosa stesse succedendo. Dopo il ricovero l’unico tramite con i famigliari erano i medici.
Cosa provava?
Non potendo incontrare i famigliari di persona, era difficile far capire le condizioni del proprio caro senza essere troppo tecnici, ma soprattutto era frustrante comunicare le brutte notizie per telefono. In condizioni normali il lavoro del medico prevede anche il contatto con la morte, ma quando si esce dall’ospedale c’è la vita: in quei mesi, invece, si era immersi in lutti e paura. Più in generale, tutta la popolazione è rimasta terrorizzata: molte persone sono ancora impaurite e tanti bambini o adolescenti stanno manifestando una sindrome post traumatica da stress.
Ci sono casi che l’hanno colpita particolarmente?
Parecchi. Ricordo, per esempio, una signora straniera di quarant’anni, sana, arrivata in ospedale una sera: era rimasta qualche ora in pronto soccorso perché aveva i sintomi del Coronavirus e, dopo un peggioramento, è stata ricoverata in rianimazione. I cardiologi le avevano diagnosticato una grave malattia del cuore da Covid e in poche ore è morta lasciando il marito malato di Covid a casa e tre figli: il più grande, di 19 anni, si è preso cura dei fratellini e il più piccolo, che ha 5 anni, è seguito dall’istituto Besta per un tumore.
Ci sono state anche storie a lieto fine?
Fortunatamente si, molti sono riusciti a guarire.
Nonostante siano passati mesi ricordo i loro nomi: Alessandro, per esempio, dopo essersi svegliato e aver capito com’era andata mi accarezzò, mentre Nisolina, madre di due figli, che si era ammalata brutalmente: ce l’ha fatta e l’ho incontrata per strada mentre stava passeggiando col girello.
Come l’ha cambiata questa esperienza?
Mi ha dato una maggior consapevolezza dell’importanza di vivere ogni attimo evitando di rimanere ancorati al passato o proiettati al futuro. Questo si traduce nel dare più valore agli affetti e alle cose più vere, senza perdersi nell’effimero se possibile.
Per concludere, riprendendo il sottotitolo del suo libro,quali sono le nuove mormalità e le antiche incertezze che ci lascia la pandemia?
Nelle prime settimane dell’emergenza uno slogan diceva “Andrà tutto bene” ma si sono innescati meccanismi non virtuosi. Dobbiamo capire perché il virus nelle province di Bergamo e Brescia ha avuto un’esplosione così forte rispetto al resto dell’Italia. Dopodiché ci si domanda perché fino a metà luglio ci hanno detto che era fondamentale indossare la mascherina anche nei luoghi all’aperto: in questo momento se vado in un luogo chiuso o affollato come il supermercato può essere utile indossarla, ma fare terrorismo crea paura e questa è una patologia. E i dati sono inequivocabili.
Ci spieghi
Il virus non è più quello di febbraio e marzo: ha perso gran parte della sua virulenza e le persone si ammalano in maniera diversa, basta guardare il numero dei pazienti che si recano in ospedale. Qualcuno della task force del governo aveva preventivato che a metà giugno dopo la riapertura ci sarebbero stati 150mila ricoveri in rianimazione ma non è stato così. Ci devono spiegare perché c’è la necessità di mantenere un clima di terrore nella popolazione, perché non tranquillizzano e non dicono che se anche in autunno si verificasse un ritorno dei casi abbiamo le cure. Il problema di Bergamo e Brescia è che a febbraio e a marzo la gente non è stata adeguatamente curata sul territorio: è stata lasciata cuocere a casa e moriva come le mosche. Questo è stato il problema: è inutile creare terrorismo e dire che i bambini a settembre dovranno andare a scuola distanziati con le mascherine, altrimenti non si considerano le evidenze sanitarie ma si sta attuando un programma politico. L’emergenza sanitaria è un discorso, mentre la questione politica ed economica che ruota attorno a certe scelte è un altra cosa.
Ma le cure ci sono?
Certo, ho cominciato a dirlo a metà aprile. La situazione è evidente: non abbiamo casi nella terapia intensiva a Bergamo e ce ne sono meno di ottanta in tutta Italia. Abbiamo l’ospedale da campo a Bergamo, l’ospedale in fiera a Milano e Covid Hub vuoti: in autunno potremmo avere tutti i posti che vogliamo ma non serviranno. Abbiamo capito che il grossissimo problema derivava dalle micro tromboembolie a livello polmonare e abbiamo la possibilità di curarle con antiinfiammatori, eparina a basso peso molecolare e il plasma iperimmune. Mi chiedo come possa fare previsioni sull’autunno chi non ha capito quale fosse la malattia.
L’intervista al dottor Stefano Manera è apparsa online su BergamoNews
1 commento
Esposito Enrico
Non drammatizzazione ma nemmeno troppa facilità