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I test per l’Alzheimer vanno cambiati?

Sembrerebbe suggerirlo un nuovo studio dell'Università di Bristol, che ha ottenuto ottimi risultati
6 Gennaio, 2021
Tempo di lettura: 2 minuti

L’Alzheimer, una malattia che fa paura e di cui ancora sappiamo molto poco. Ad oggi i nostri strumenti diagnostici non riescono ancora a individuare i soggetti a rischio prima che i sintomi diventino debilitanti. Eppure una diagnosi precoce sarebbe cruciale per moltissimi. Presto però tutto potrebbe cambiare. Secondo un nuovo studio dell’università di Bristol, infatti, modificare i test sui ricordi ad una distanza di 4 settimane, dagli attuali 30 minuti, potrebbe aiutarci a migliorare l’individuazione delle persone a rischio.

I test per l’Alzheimer vanno cambiati?

Ad oggi, il test più comune per verificare le capacità cognitive delle persone è l’Addenbrooke’s Cognitive Examination III/ACE-III. Questo esame per la diagnosi della demenza prevede che ai soggetti vengano sottoposte una serie di prove in 5 diverse aree: attenzione, memoria, linguaggio, scioltezza e abilità visuo-spaziali. La parte sulla memoria si divide a sua volta in 3 diverse tranche: una lista di 16 parole, delle storie raccontate e alcune figure complesse. Le persone sottoposte ai test dovranno ricordarle a distanza di 30 minuti.

La ricerca di Bristol

Secondo la ricerca dell’Università di Bristol, però, svolgere la seconda parte a distanza di 4 settimane porterebbe a diagnosi molto più affidabili. “Documentiamo che estendendo e ritardando il periodo in cui la memoria, in particolare la memoria verbale, viene testata dagli attuali 30 minuti a 4 settimane si può significativamente migliorare l’identificazione delle persone destinate ad un declino cognitivo nel successivo anno. Testare la memoria dopo 4 settimane potrebbe predire il rischio della malattia di Alzheimer”.

Un lasso più lungo per la verifica dei test

I ricercatori hanno preso in esame 46 persone, 21 delle quali donne. L’età media di coloro che hanno partecipato ai test, tutte persone in buona salute e senza precedenti problemi cognitivi, è stata di 70,7 anni. I soggetti hanno dovuto effettuare entrambe le prove, tanto quella a 30 minuti che quella a 4 settimane, e dopo entrambe sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale. Dopo un anno gli esaminatori hanno ripetuto il test, per verificare l’eventuale peggioramento delle abilità cognitive. 15 dei 46 soggetti avevano avuto dei danni cognitivi. E il test a 4 settimane si è rivelato molto più efficace nell’individuarli.

Che ne pensano gli autori

Secondo il neuroscienziato Alfie Wearn, tra gli autori dello studio, “lo studio mostra evidenze per uno strumento veloce e a basso costo da somministrare come screening, che potrebbe essere utilizzato per identificare a livello assai precoce i segni dell’Azheimer”. Liz Coulthard, anch’essa tra i firmatari, “È interessante notare che i partecipanti allo studio erano tutti anziani sani e nessuno ha sviluppato l’Alzheimer durante l’esperimento ma alcuni hanno mostrato nel corso dell’anno un tipo di cambiamento nella memoria e nel pensiero che può precedere la malattia di Alzheimer”.

Un nuovo metodo che crea delle difficoltà

Cambiare l’approccio diagnostico in modo così radicale comporterebbe problemi non indifferenti. Sarebbe infatti necessario che le persone, quasi sempre anziane e spesso con problemi di mobilità, tornassero presso la struttura una seconda volta, con evidenti problemi organizzativi e di costi. Se però ricerche successive confermassero questo studio, si potrebbe pensare di integrare entrambi i test. E scegliere di volta in volta quello più adatto alle circostanze. Avere una diagnosi precoce, tanto per l’Alzheimer che per le altre disfunzioni cognitive, sarebbe di importanza cruciale per garantire alle persone cure adeguate e una terza età serena.

 

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