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9 Novembre, 2024

La narrativa dello smaltimento sostenibile dei rifiuti

Dalla gestione degli escrementi umani alla narrativa dello smaltimento sostenibile dei rifiuti

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 34 • Giugno 2020

 

 

Premessa di solito obliata: gli scarti diventano rifiuti se non “metabolizzati” in modo significativo

Stimando il volume dei rifiuti umani, di cui gli studiosi hanno notizie attraverso informazioni governative e corporative e per mezzo dei criteri di classificazione omologati dall’establishment, si può sostenere che noi umani siamo, metaforicamente, dei prodigi degli scarti. Se si esplora, però, addirittura superficialmente, la storia dell’ambiente, sembra che la nostra abbondante generazione di spazzatura sia diventata un peso tossico con il culto moderno dell’usa e getta e del suo conseguente “smaltimento”. Questa posizione è sostenuta, da anni, dalla studiosa in materia nonché del traffico dell’uranio in Africa, Gabrielle Hecht, professoressa di Sicurezza Nucleare alla Stanford University.

Lo smaltimento dell’usa e getta è, senz’altro, un capitolo ancora in elaborazione della storia dell’ambiente che, sicuramente, andrebbe integrato con ciò che accade fuori dal nostro campo visivo, prevalentemente urbano o di campagna pressoché suburbana. Della storia dell’ambiente e della salute pubblica dovrebbe fare parte, altresì, l’estrazione mineraria e, ugualmente, la storia epidemiologica delle popolazioni, vista, per interpretarla in un modo più attendibile, da una prospettiva interdisciplinare.

Le massicce operazioni di estrazioni minerarie, ad esempio, scavano le rocce, portando alla luce litio, columbite-tantalite (coltan)1 e centinaia di altri minerali per alimentare il nostro gigantesco appetito socio-culturale nonché da tossicodipendenti per la roba elettronica. La sabbia dragata dagli alvei e dai fondali oceanici diventa cemento. Fino ad oggi, ce ne sarebbe abbastanza per coprire il globo in un guscio spesso 2 mm secondo l’immagine metaforica della Hecht. L’olio aspirato dal fondo marino alimenta la locomozione e la produzione e funge da base chimica per le nostre vite plastificate. Per rendere l’idea della dimensione di quest’attività di estrazione, facilmente si potrebbe immaginare di avvolgere la nostra replica del pianeta in cemento in un involucro di plastica, stando ancora all’immaginario della Hecht.

L’estrazione mineraria è qualcosa di caotico. Il recupero di tutti quei minerali richiede di trivellare attraverso tonnellate di ciò che l’industria mineraria chiama “materiale sterile”, un termine rivelatore per la materia, che il sistema ideologico a supporto dell’organizzazione delle popolazioni, percepisce come puramente ostruttiva, senza utilità, sterile in ogni modo. Una tipica catenina in oro di 14 carati lascerebbe una tonnellata di roccia di scarto in Sudafrica. Ottenere il litio, che alimenta cellulari e Tesla, significherebbe perforare letti fragili di sale, magnesio e potassio nelle Ande cilene, producendo pile e pozze di materiali di scarto. Più di 12.000 fuoriuscite di petrolio avrebbero contaminato il Delta del Niger. Tutto questo e molto altro, molto di più dalla sola estrazione, nella storia dell’ambiente e della salute pubblica.

Gli esperti della scienza del sistema Terra, cioè quelli che intendono comprendere la Terra come Sistema, descrivono questi processi con i controversi grafici detti a “mazza da Hockey”. A partire dalla seconda metà del XX secolo, i loro inquietanti grafici asintotici mostrano una “grande accelerazione” nello sperpero di materiali planetari. Alcuni aumenti esponenziali possono essere misurati direttamente, come quelli per l’anidride carbonica o il metano; altri richiedono l’estrapolazione, come ciò che viene lasciato dalla costruzione di dighe o dal trasporto motorizzato. In entrambi i casi, il risultato sembra chiaro. I materiali e le molecole scartati nel corso dello scavo e del dragaggio nel pianeta Terra non scompaiono, invece si muovono, si elevano nell’atmosfera, si diffondono su terreni un tempo fertili, si infiltrano nei corsi d’acqua. Secondo molti ricercatori, stiamo mondializzando i nostri rifiuti.

 

Accenni storici sul trattamento delle deiezioni umane

Noi umani abbiamo sempre prodotto scarti ma gli scarti diventano rifiuti solo se non sono metabolizzati in modo significativo. Consideriamo le cose emesse dai nostri corpi su una base più o meno quotidiana: urine ed escrementi. Molte società hanno prosperato dispiegando, piuttosto che scartando, le feci umane. Il Giappone pre-industriale monetizzava gli escrementi. Come documenta la storica Susan Hanley, a Osaka, “i diritti sulla materia fecale … appartenevano al proprietario dell’edificio, mentre l’urina apparteneva agli inquilini”. Per 4000 anni, la Cina ha sostenuto un sistema agricolo che utilizzava feci umane come fertilizzante. All’inizio del XX secolo, oltre 180 milioni di tonnellate di letame umano venivano raccolte ogni anno in Estremo Oriente, secondo le stime fatte nel 1911 dallo studioso del suolo Franklin Hiram King, per un totale di 450 chili a persona all’anno, letame che arricchiva il terreno con di più di 1 milione di tonnellate di azoto, 376.000 tonnellate di potassio e 150.000 tonnellate di fosforo. Certo, King avrebbe potuto sopravvalutare. In realtà, quelle cifre equivalgono a 1,2 chili di feci per persona al giorno, il che sembra molto. Tuttavia, è difficile respingere il suo commento successivo:

L’uomo [con cui King intendeva gli uomini americani, dei coloni bianchi] è l’acceleratore più stravagante di rifiuti che il mondo abbia mai sopportato. La sua ferocia distruttiva è caduta su ogni essere vivente alla sua portata, sé stesso compreso; e il suo appetito di distruzione nelle mani incontrollate di una generazione ha spazzato via la fertilità del suolo marino che solo secoli di vita potrebbero accumulare …

Queste considerazioni sull’ambiente venivano espresse, ancorché, come spesso succede oggi, senza una documentazione dei fatti, poco più di 100 anni fa. King traeva le sue conclusioni dalle sue osservazioni. L’accenno relativo a King non riguarda affatto l’accuratezza della sua analisi quanto la segnalazione delle preoccupazioni per l’ambiente all’inizio del secolo scorso.   

Lo smaltimento dello sterco, storicamente e culturalmente, appare agli studiosi della materia come qualcosa di contingente. Per un certo periodo, ad esempio, gli europei hanno usato gli escrementi umani nella produzione di concia e salnitro. Quando i viaggiatori del XIX secolo tornarono pieni di ammirazione per l’uso su larga scala di fertilizzanti umani in Cina e in Giappone, i chimici spiegarono, con approvazione, che, se trattata correttamente per rimuovere i batteri nocivi, la cacca restituiva azoto al suolo. L’odore ha reso il letame umano una vendita difficile, però. Lamentando le pratiche dispendiose del capitalismo, Karl Marx notò in Das Kapital (1867) che Londra “non trovò un uso migliore per l’escrezione di quattro milioni e mezzo di esseri umani che contaminare il Tamigi, pagando così un costo molto elevato” e ciò, nonostante che già nel 1848 fosse stata emanato il Public Health Act, cioè la legge di istituzione del servizio nazionale della sanità pubblica grazie all’impegno del riformista sociale Edwin Chadwick2.   

Nella sua descrizione storica dell’espansione del sistema fognario di Parigi durante il Secondo Impero e la Terza Repubblica, Donald Reid descrive come gli ingegneri municipali parigini abbiano migliorato il trattamento degli escrementi, filtrando e trattando i liquami umani al fine di trasformare la “terra precedentemente sterile” in un terreno lussureggiante dove le verdure crescevano “con un vigore inesprimibile”. L’agricoltura fognaria prosperò in alcuni sobborghi di Parigi fino al secondo dopoguerra, quando un aumento dei prezzi dei terreni la rese non redditizia.

Nonostante il successo nel trattamento delle acque reflue, i riformatori europei non uguagliarono la scala, l’efficienza e gli standard sanitari delle pratiche in Cina o in Giappone. Questo, in ogni caso, non impedì agli europei di convincersi della loro superiorità sanitaria rispetto ai loro sudditi coloniali. Nei primi decenni del XX secolo, i funzionari coloniali invocarono la salute pubblica (e la “missione civilizzatrice”) quando ridisegnarono le città in Marocco, Madagascar e altrove. I pianificatori, infatti, hanno raso al suolo e ricostruito le abitazioni, cercando di proteggere i coloni europei dalle escrezioni dei loro vicini africani. Nello stesso periodo, gli statunitensi attuarono nelle Filippine una serie di leggi fecali, descritte dallo storico Warwick Anderson “colonialismo escrementale”. Nell’apartheid in Sud Africa, l’accesso ineguale alle infrastrutture avrebbe costituito la base della gerarchia razziale, al punto che ai dipendenti domestici fu proibito di usare le stesse toilette che lavavano per i loro datori di lavoro. La segregazione in nome dei servizi igienico-sanitari divenne uno strumento di dominio coloniale.

 

Altri giudizi valutativi sulla questione della gestione delle deiezioni umane

La questione della defecazione può essere considerata da tanti punti divista, compreso quello della sua pericolosità nonché dall’angolazione in cui essa potrebbe risultare mortale. Le Nazioni Unite stimano che circa 673 milioni di persone non avrebbero altra scelta che evacuare le viscere all’aperto. Non tutti vedono questo come un problema, intendiamoci. Molti agricoltori maschi in India, ad esempio, fanno la cacca abbastanza pacificamente nel loro appezzamento al mattino. Per le loro mogli e figlie, tuttavia, trovare il momento e il luogo giusti per alleviare sé stesse pone sfide più serie. Farlo alla luce del giorno li rende vulnerabili a molestie e vergogna. Farlo sotto la copertura dell’oscurità può invitare l’intrusione di animali selvatici o stupratori. Evitare tali pericoli richiede di mantenere il controllo intestinale in tenera età. Una madre del Rajasthan spiega: “Faccio sedere i miei figli sulle gambe di legno del lettino se ricevono la chiamata della natura di notte in modo che la pressione possa andare, perché non posso prendere i miei bambini piccoli per farli defecare da soli di notte.” Al di là del disagio e dei possibili rischi di molestie e abusi, la defecazione all’aperto rappresenta un rischio per la salute individuale e pubblica. L’assenza di acqua per lavarsi, la passione delle mosche per le feci e una varietà di altri vettori creano molteplici percorsi per la contaminazione degli alimenti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima circa 800.000 morti all’anno a causa della diarrea risultante.

Defecare con dignità pone difficoltà ancora maggiori per i poveri delle città. L’aumento della densità urbana annulla ogni eventuale idea culturale di privacy e aumenta enormemente la portata del problema. La maggioranza delle popolazioni radicate in aree considerate urbane sono localizzate in città sfidate a fornire acqua corrente ma che non hanno le infrastrutture per i servizi igienici con sciacquone, per citare soltanto uno degli esempi riguardanti la situazione dell’ambiente e della salute pubblica. Nelle migliori circostanze, latrine ben mantenute possono fornire spazi sicuri per soddisfare standard minimi di esigenze sanitarie. Alcune amministrazioni locali si sforzano per fornire strutture di base per i loro cittadini più bisognosi. Altre autorità lasciano le persone a badare a sé stesse. Per la gioia dei neofiti della politica neoliberista, alcuni di questi sforzi indipendenti possono avere abbastanza successo. Nella città di Tema, sulla costa del Ghana, i servizi igienici comuni sono diventati redditizie imprese private. A Kampala, capitale dell’Uganda, gli imprenditori creativi convertono i rifiuti in energia, producendo fasci di carburante come le bricchette energetiche “My Kook” (il loro slogan: “splendore per reintegrare la natura”). Tuttavia, gli escrementi devono essere spalati per diventare risorsa, le latrine devono essere svuotate perché il sistema possa essere efficace. E questo è un lavoro sporco e di basso livello in tutto il mondo. La gestione degli escrementi è un modo di palesare, ed intensificare, le divisioni sociali.

La dimensione conta. Durante la prima ondata di entusiasmo per i collegamenti dei servizi igienici, chi avrebbe potuto prevedere le conseguenze dell’utilizzo degli scarichi per tutti i tipi di rifiuti? Oppure immaginato l’avvento dei pannolini usa e getta, del resto. All’inizio del XXI secolo, il sistema fognario di Londra del XIX secolo stava regolarmente subendo gravi blocchi, che i funzionari hanno definito, allegramente, “fatbergs”3. Thames Water, la società di servizi privati responsabile dell’approvvigionamento idrico pubblico e del trattamento delle acque reflue dell’area metropolitana di Londra ha recentemente descritto ciò che ostruiva il sistema:

un’estrema massa solida di salviettine umidificate, pannolini, grasso e olio pesante come 11 autobus a due piani o più del doppio della lunghezza di due campi da calcio di Wembley con un peso di 130 tonnellate sta bloccando un tratto di fogna vittoriana.

I fatbergs davvero colossali fanno notizia ma i blocchi più piccoli abbondano nella fogna vittoriana, bloccando i tubi ad una velocità media di 4,8 volte all’ora e questo problema costa alla Thames Water circa 1 milione di sterline al mese. Il problema, però, non è che i Vittoriani abbiano progettato cattive fogne. Invece, è la seduzione dell’usa e getta, così come le campagne pubblicitarie e gli incentivi corporativi che hanno coltivato e sostenuto il suo fascino dall’inizio del XX secolo. Niente di tutto ciò era inevitabile. All’alba dell’usa e getta e del suo smaltimento, molti hanno trovato la pratica sgradevole. Le due guerre mondiali rallentarono anche l’avanzata della cultura dell’usa e getta dal momento che il tempo di guerra richiede un’attenta gestione dei materiali. Intendiamoci, il riciclo non da essere valutato come intrinsecamente virtuoso. Di fatto, la storica Anne Berg4 ha dimostrato, con terribili dettagli, come i nazisti eccellessero nel riutilizzo, facendo virtù della raccolta, non solo di materiali inerti ma anche di resti umani. Il razionamento continuò in tutta l’Europa occidentale (e attraverso la Cortina di Ferro) fino agli anni ’50, mentre le società facevano fatica a ricostruire in mezzo a carenze croniche. All’inizio degli anni ’70, infatti, gli ambientalisti sostenevano la continua frugalità, riformulando la struttura morale del riciclaggio in termini planetari.

 

Il trionfo dell’usa e getta e altri accenni storici sulle politiche dello smaltimento

Tuttavia, la disponibilità dell’usa e getta ha trionfato. Il geografo Max Liboiron sostiene che l’industria americana ha promosso, deliberatamente e con grande dedizione, la cultura dell’usa e getta [l’usabilità] attraverso una varietà di strategie di produzione, confezionamento e distribuzione, che vanno dall’obsolescenza pianificata alla moda veloce. Contrariamente al discorso popolare, gli umani non sono intrinsecamente spreconi; piuttosto, osserva Liboiron, l’affermazione “è nata in un determinato momento e luogo, in base alla progettazione, alle intenzioni corporative o al loro disegno”. Nella storia dell’ambiente questo periodo è stato quello del trionfo della materia plastica.

Il film The Graduate (1967) ha immortalato il trionfo dei polimeri per un pubblico popolare. Nella sequenza più nota del film, un McGuire di mezza età spinge il giovane laureato Ben a un cocktail party per offrirgli alcuni consigli sulla carriera, annunciandogli che vorrebbe dirgli solo una parola e, dopo aver verificato che Ben lo stia ascoltando, con espressione seria aggiunge: plastica. Poi aggiunge, c’è un grande futuro nella plastica, è un affare. 

Lo scambio di battute di questa sequenza divenne un tropo5 generazionale, con la “plastica” innalzata come simbolo del consumismo da cui gli hippy desideravano ardentemente fuggire. Ma la fuga fino ad oggi si è rivelata impossibile. Alla fine degli anni ’80, paradossalmente persino il dissenso era diventato mercificato e plastificato. Basti pensare alla proliferazione dell’armamentario di Che Guevara nei negozi che vendono curiosità di “controcultura”.

Quando si analizza fino in ​​fondo la questione dei rifiuti, gran parte di ciò che è contrassegnato come “rifiuto solido urbano” sarebbe meglio considerarlo come “rifiuto industriale”. La categoria o classificazione è importante quando la maggior parte dei consumatori non può permettersi il lusso di evitare la plastica monouso. Siamo intrappolati. Come individui, possiamo ordinare rispettosamente i rigetti, compostare i rifiuti alimentari e riutilizzarli al massimo e tuttavia non fare un’ammaccatura nell’espansione esponenziale dei rifiuti, spesso tossici. Questo, certamente, non significa che non dovremmo preoccuparci. Occuparci dei rifiuti può sensibilizzare, rafforzare l’impegno dei cittadini verso un futuro planetario meno ingiusto e può sostenere le riforme più forti e sistemiche. Tale richiamo incoraggia, senz’altro, alcune persone a consumare meno. Ma occuparci come individui religiosamente dei nostri rifiuti personali è soltanto una soluzione molto parziale. Nel suo libro Recycling Reconsidered, l’esperta di politica sui rifiuti Samantha MacBride è orgogliosa di ciò che lei chiama “ogni semplice piccolo bit di aiutismo“. [‘pure every-little-bit-helps-ism’]. Il movimento del riciclaggio, per quanto ben intenzionato come segnala MacBride, avrebbe messo i riflettori in modo troppo diretto sul singolo consumatore. Questo avrebbe reso più semplice la cooptazione del riciclaggio da parte delle aziende manifatturiere, desiderose di mantenere lo status quo della vendita di nuovi prodotti all’infinito.

Troppa attenzione sugli individui distrarrebbe altresì da cosa fare dei rifiuti industriali, in gran parte permanentemente tossici, e tutti prodotti su una scala molto più ampia della spazzatura municipale. I libertari di destra si baserebbero su questo fatto per sostenere che la raccolta dei rifiuti debba essere completamente privatizzata e / o che il riciclaggio sia inutile. Invece, insiste MacBride, i dati dimostrerebbero che la gestione dei rifiuti solidi – in tutte le sue forme, da tutte le fonti – debba essere gestita da istituzioni pubbliche ben regolamentate. Nel suo studio sull’Ungheria comunista, la sociologa Zsuzsa Gille offre un esempio salutare. Nel dopoguerra, il paese ha cercato di utilizzare i rifiuti industriali come risorsa. Questo obiettivo acquisì una particolare virtù nel contesto della competizione ideologica della Guerra Fredda, perché, a quanto pare, era in netto contrasto con le pratiche capitaliste. Negli ultimi decenni, tuttavia, la gestione ungherese dei rifiuti è stata privatizzata. Si è trasformata in un “modello di rifiuti chimici, in cui i rifiuti erano visti principalmente come un materiale inutile e persino dannoso”. Questo approccio si è concentrato sulle tecnologie alla fine del processo o soluzioni di fine ciclo ai problemi ambientali [le cosiddette technologies at the end of the pipe], in pratica in una gestione dei rifiuti anziché una prevenzione dei rifiuti. Oggi, i regimi di residui chimici dannosi sono dominanti in tutto il mondo.

Ora affrontiamo, letteralmente, mareggiate di plastica e, forse, presto, uno tsunami. I pezzetti dei rifiuti negli oceani formano masse micidiali di microplastiche. Albatro e balene vengono rigettati a riva con lo stomaco pieno di immondizia umana. Per anni, gli Stati Uniti d’America hanno esportato i loro “riciclabili” in Cina, fino a quando il governo cinese ha fissato uno standard di purezza plastica così elevato che la spazzatura americana non è riuscita a raggiungere lo standard. L’industria del riciclaggio degli Stati Uniti d’America si è rapidamente spostata in altre nazioni asiatiche. Come ha sostenuto MacBride, questo passaggio laterale mostra come l’industria del riciclo non faccia praticamente nulla per la conservazione delle risorse e offra risultati deboli in termini di riduzione del consumo energetico o dell’inquinamento. Risulta così ovvio che la esportazione del riciclaggio sia un motore di disuguaglianza e che il riciclaggio possa essere un’attività sporca e orientata al profitto.

Più facciamo, più sprechiamo. Ma questo implicito “noi” non è universale. Si basa sull’esclusione e sullo sfruttamento, dinamica definita come “esternalità” dalle istituzioni del capitalismo predatore e dagli economisti che legittimano le loro azioni. Dal 1950 l’industria ha prodotto prodotto oltre 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Di questi, 6,4 miliardi di tonnellate sono finite come rifiuti, la stragrande maggioranza originaria di paesi ricchi. Solo il 9% di questo totale è stato “riciclato”; un altro 12% è stato incenerito. Il resto è andato in discarica o è stato lasciato a sé stesso.

Tali materie plastiche non possono essere affatto riciclate. Infatti, se abbandonate, i materiali si scompongono in microplastiche, lasciando percolare lungo la loro strada inquinanti organici persistenti, vale a dire i cosiddetti POP (Persistent Organic Polutants), sostanze chimiche molto resistenti alla decomposizione e che possiedono alcune proprietà tossiche particolarmente nocive per la salute umana e per l’ambiente. L’etica della crescita senza fine è alimentata quotidianamente dall’idea dello smaltimento sostenibile dell’usa e getta e dalle descrizioni dei media delle economie in espansione (buone) o stagnanti (cattive) come nell’attuale congiuntura del Covid19. Lo smaltimento sostenibile è una fantasia che trae nutrimento da due finzioni gemelle: che il pianeta generi risorse infinite e che gli scarti scompaiano.

Coloro che hanno dichiarato l’assurdità della crescita infinita sono stati derisi per anni. Si pensi alle reazioni a The Limits to Growth l’importante rapporto commissionato nel 1972 dal Club di Roma al MIT che utilizzava simulazioni al computer per mostrare come l’accumulazione incontrollata avrebbe prodotto una sorta di collasso planetario. Seguirono rapidamente le demolizioni, mentre eminenti economisti si beffavano di scenari così rozzi e non plausibili. I critici hanno insistito sul fatto che il progresso tecnologico avrebbe superato l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse.

 

Lo sviluppo sostenibile sarebbe un ossimoro

È vero che The Limits to Growth si basava su simulazioni semplificate, ma i suoi principi centrali, vale a dire che il pianeta non generi, senza l’intervento di innovazioni, risorse infinite e che gli scarti non scompaiano rimangono ancora validi. Ricerche recenti e più solide hanno confermato molti dei risultati delle simulazioni del primo rapporto e questo pone un grande interrogativo ad un’altra fantasia seducente che anima i dibattiti pubblici sul futuro dell’umanità, vale a dire lo sviluppo sostenibile.

Il pathos della sostenibilità richiede sacrificio e ingegnosità, così come in tutti i romanzi popolari. Le società ricche dovrebbero rinunciare all’usa e getta e impegnarsi a riutilizzare i rifiuti con l’aiuto dei cosiddetti sistemi “intelligenti”. La narrativa romantica della sostenibilità recita che il sole e il vento forniranno una fonte illimitata di energia, alimentando l'”internet delle cose” (e gli schermi). Le nuove tecnologie aiuteranno ad alleviare la povertà consentendo alle donne di cucinare senza bruciare legna e ai bambini di fare i compiti dopo il tramonto. Fatto bene, il racconto continua, tali misure potranno generare un “buon Antropocene”6, in cui la crescita continuerà e tutti prospereranno. Coloro che obiettano, che insistono sul fatto che l’unica via per la stabilità planetaria è attraverso la decrescita, affrontano la stessa derisione scagliata contro i loro predecessori dietro The Limits to Growth.

Tuttavia, le tecnologie acclamate dai cosiddetti eco-modernisti sfortunatamente scaricano scarti in ogni fase, dalla produzione alla distribuzione e all’uso. Quindi, non si dovrebbe limitare lo sguardo ai pannelli solari sul tetto in Arizona, dovremmo, altresì, fare attenzione addirittura al pesce morto nel fiume Mujiaqiao in Cina, dove uno dei più grandi produttori fotovoltaici del mondo è noto per aver versato acido fluoridrico. Non si dovrebbe cantare vittoria sul miglioramento delle norme sulle emissioni in Europa senza riconoscere, sistemicamente, che le auto che non qualificano nel mercato europeo vengono esportate in Africa, dove costituiscono un secondo colpo nel buio del futuro dell’ambiente e della salute pubblica.

Da questa prospettiva sistemica e complessa, “lo sviluppo sostenibile” appare come un ossimoro. Le sue promesse di molti consumatori nei paesi ricchi consumando beni senza sprechi in una sorta di metabolismo mondiale che opera alla massima efficienza potrebbero piuttosto essere considerate un dolce sogno. Confortante. E profondamente allettante Infatti, i funzionari della città di San Francisco, ad esempio, sembrano credere veramente che possano formulare politiche per raggiungere lo “spreco zero”. In quanto centro globale di innovazione, la città sembra pronta a realizzare il sogno di un’economia veramente circolare. Eppure nella sua forma attuale, il sogno può prosperare solo perché la realtà rimane invisibile alla maggior parte degli abitanti della città. Nella vita reale, la maggior parte dei rifiuti di San Francisco, sia che si tratti di acque reflue o di riciclaggio, sia che si tratti di costruzione, emissioni diesel o eredità tossica e radioattiva dei suoi decenni come hub navale per i test nucleari del Pacifico, finisce, chiaramente, a Bayview-Hunters Point, un quartiere ignorato dall’élite della città, la cui prosperità dipende dal trattare la comunità di Bayview-Hunters Point come una discarica.

Non fraintendetemi. Vale la pena articolare le ambizioni per un’economia circolare. Nel mondo ricco dobbiamo sforzarci di produrre meno rifiuti, di trovare modi di riparare le cose, di riutilizzare i materiali che eravamo soliti scartare. Ma non illudiamoci. Qualsiasi forma di futuro sostenibile, dimentichiamoci di qualcosa di così fragoroso come lo “sviluppo“, richiede meno per i prosperi tra noi, non di più. Meno roba, meno desiderio, meno comfort, meno convenienza. Meno di tutto, davvero.

 

  1. Miscela complessa di columbite Nb₂O₆ e tantalite Ta₂O₆, due minerali della classe degli ossidi che si trovano molto raramente come termini puri. Il termine “coltan” è usato colloquialmente in Africa per riferirsi ad una columbite-tantalite a relativamente alto tenore di tantalio.
  2. Avvocato, giornalista e riformista sociale inglese. Convinto che le condizioni ambientali insalubri fossero causa anche di degrado sociale, si impegnò per l’attuazione di un piano di riforma della sanità inglese, The sanitary condition of the labouring population, nel 1842. Membro della Commisione Salute [Board of Health], contribuì all’emanazione del Public Health Act nel 1848, la legge di istituzione del servizio nazionale di sanità pubblica.
  3. Un fatberg è una massa congestionata in un sistema fognario formato dalla combinazione di materia solida non biodegradabile, come salviettine umidificate, e grasso o grasso di cottura.
  4. Anne Berg. The Nazi rag-pickers and their wine: the politics of waste and recycling in Nazi Germany. In “Journal of Social History”, Vol. 40, Issue 4, pages 446-472, 2015
  5. Il tropo o traslato è l’utilizzo retorico di una “deviazione e trasposizione di significato”, quando l’uso di un’espressione normalmente legata ad un campo semantico viene attribuito “per estensione” ad altri oggetti o modi di essere. Il suo utilizzo è detto “tropologia”, termine che indica un parlare per tropi.
  6. Il termine Antropocene indica l’epoca geologica attuale, nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Il termine deriva dal greco anthropos, che significa uomo, e almeno inizialmente non sostituiva il termine corrente usato per l’epoca geologica attuale, Olocene, ma serviva semplicemente ad indicare l’impatto che l’Homo sapiens ha sull’equilibrio del pianeta. Tuttavia più recentemente le organizzazioni internazionali dei geologi stanno considerando l’adozione del termine per indicare appunto una nuova epoca geologica in base a precise considerazioni stratigrafiche.