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17 Luglio, 2025

Il cibo di Persefone.

Un caso di terapia omeopatica scelta in base alla dimensione simbolica

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Relazione presentata al XXI Congresso Nazionale Fiamo Orvieto, 28-30 marzo 2025

Nel presente articolo descrivo un caso clinico nel quale un rimedio scelto in base alla sua dimensione simbolica ha prodotto un risultato terapeutico significativo.

Pur trattandosi di un singolo caso, il risultato ottenuto è molto importante, perché conferma l’idea, già esposta nell’articolo: “Il farmaco omeopatico come via di accesso alla dimensione simbolica, tra psiche e materia” , che il processo di dematerializzazione omeopatica rappresenti una via autonoma e indipendente dall’intervento della psiche umana per raggiungere la dimensione del simbolo, intermedia tra psiche e materia.

La dimensione simbolica

Il simbolo, come ha spiegato Jung, rappresenta la dimensione che qualsiasi oggetto acquista nel momento in cui può evocare una realtà non immediatamente inerente, secondo l’efficace definizione di uno dei più noti psicoanalisti junghiani, Mario Trevi.

La caratteristica fondamentale del simbolo è, infatti, quella di evocare una realtà nascosta, non evidente.

È molto importante distinguerlo dal segno, che corrisponde alla semplice analogia con una cosa che ha un significato fisso, il cui contenuto è già noto alla coscienza. Ad esempio, il cane è segno della fedeltà, la rosa dell’amore, ecc.

Il lettore avrà notato che, molto spesso, anche in questi casi si usa il termine simbolo, che la psicologia junghiana riserva però ai soli casi nei quali si evoca una realtà sconosciuta, come stiamo facendo ora. Si tratta sempre di qualcosa di indeterminato, sconosciuto, inconscio, di cui possiamo percepire il lato determinato, conosciuto, conscio, esattamente come possiamo vedere una sola faccia della Luna.

Il simbolo è, quindi, sempre al confine tra due mondi, come spiega la sua etimologia: sy’mbolon, «mettere insieme».

Nella nostra cultura, la possibilità che un oggetto materiale possa accedere alla dimensione simbolica è attribuita esclusivamente alla capacità simbolizzatrice della psiche umana, che a partire da quest’oggetto può creare un simbolo, un ente intermedio tra psiche e materia.

Ad esempio, se uno di questi oggetti materiali – poniamo il mare – appare in un sogno, qui esso non è più soltanto l’enorme distesa d’acqua che conosciamo nel mondo materiale, e neppure soltanto un elemento psicologico che possiamo interpretare psicologicamente, ma rappresenta un simbolo, che partecipa di entrambe queste realtà.

Prendendo un esempio molto conosciuto in etnografia, è ormai assodato che i suggestivi rituali di crisi e cura del morso della mitica taranta, che fino a pochi anni or sono caratterizzavano il fenomeno del tarantismo pugliese, non abbiano nulla a che fare col presunto morso del grosso ragno peloso denominato Lycosa Tarentula o Tarentula Hispanica, o del piccolo ma più temibile Latrodectus tredecimguttatus, o anche di qualunque altro ragno velenoso della zona, scorpioni inclusi, che al massimo, con  diversi livelli di gravità, possono provocare edema, iperemia, necrosi locali, o anche stati di intossicazione generale (soprattutto il Latrodectus), ma sempre molto diversi dal comportamento dei tarantolati.

Il più autorevole studioso del fenomeno, l’antropologo E. De Martino, concludeva così nel suo documentatissimo studio sul campo, La Terra del rimorso, che il comportamento dei tarantolati può essere spiegato solo a partire dalla « trama simbolica del mito della taranta»:

la stessa conclusione alla quale sono giunti gli omeopati che hanno esaminato i provings di Tarentula Hispanica.

Anche i risultati dei provings, infatti, sono molto lontani dall’effetto del ragno reale, mentre mostrano una sorprendente affinità con il comportamento dei tarantolati: la sensibilità alla musica ritmica, il senso di persecuzione, il comportamento trasgressivo, la necessità di un pubblico osservante, l’estrema irrequietezza e gli altri sintomi registrati «non hanno nulla a che fare con il veleno reale ma tanto con quello simbolico» (Mangialavori, p. 25).

Da queste osservazioni – e da altre simili, che non è raro incontrare nella pratica omeopatica – si può quindi ipotizzare che il processo omeopatico di dematerializzazione rappresenti una maniera autonoma, indipendente dalla mediazione della psiche, per accedere a quello stesso luogo intermedio tra psiche e materia – la dimensione simbolica – che si può raggiungere per via psicologica attraverso il processo di simbolizzazione, come concludevo nel precedente articolo.

Come per ogni teoria, però, la conferma definitiva può venire soltanto dall’applicazione pratica, e l’occasione si è presentata pochi mesi dopo, con il caso qui descritto.

Caso Clinico

(Alcuni dati biografici sono stati modificati per garantire la privacy della paziente, che comunque ha acconsentito alla pubblicazione)

E.D., di anni 63. Arriva la prima volta alla mia osservazione nel Marzo 2023, con una lunga storia di crisi depressive e ricoveri psichiatrici.

La sua depressione esordisce nel 1987, dopo che risulta con chiarezza che non potrà avere figli naturali, a causa di una pregressa infiammazione pelvica.

Uno psichiatra le prescrive una prima terapia a base di Perfenazina e Amitriptilina, che però non risolve il suo malessere, che invece si aggrava al punto che, dopo due mesi, ha un episodio che lei descrive come un blocco psicomotorio: la trovano con gli occhi sbarrati, la bocca storta e le mani rattrappite.

Viene ricoverata in una clinica privata, dove la curano con dosi molto forti di psicofarmaci, e la dimettono con una terapia a base di Litio Carbonato.

Assume il Litio per 19 anni, durante i quali psicologicamente si sente molto bene, tanto che riesce ad affrontare con successo diversi problemi che la vita le presenta.

Nel 2006, però, si accorge di urinare troppo: arriva a emettere 8 litri di urina al giorno. Le analisi rivelano un danno renale causato dal Litio, che viene così sospeso, e sostituito con la Carbamazepina.

Il cambio non si dimostra efficace. Piegata dal peso delle difficoltà esistenziali che finora aveva sopportato con l’aiuto del Litio, ha il primo down: si mette a letto, non si alza, parla solo a monosillabi e con un filo di voce, reagisce a stento agli stimoli. Viene ricoverata di nuovo in una Clinica Psichiatrica, dove riceve la diagnosi di Sindrome Bipolare di tipo II.

È il primo di tre ricoveri che si succederanno nel corso degli anni, durante i quali riceverà, senza grossi risultati, quasi tutti i farmaci psichiatrici a disposizione: Quetiapina, Olanzapina, Risperidone, Paroxetina, Clomipramina.

Ma nessuna terapia le impedisce di ricadere, ogni circa 6-9 mesi, in periodi di 3 mesi di depressione, che la costringono a letto, in una condizione di quasi-catatonia.

Deve assumere una badante fissa, che vive con lei.

Quando arriva alla mia osservazione, sta assumendo: Clomipramina Cloridrato 75 mg RP; Risperidone 1 mg; Flurazepam 15 mg.

All’inizio, ho provato ad intervenire con alcuni farmaci unitari che emergevano dalla repertorizzazione dei principali sintomi della paziente, tra cui Sepia, Arsenicum, Phosphorus, Pulsatilla, Lycopodium, senza grandi risultati.

Dopo qualche mese di continui insuccessi, ho quindi deciso di giocare la carta della dimensione simbolica.

Bernini – Il ratto di Proserpina

Secondo la mitologia greca, infatti, Persefone (Proserpina nella mitologia latina) era stata rapita da Ade, il dio dei morti, ma voleva tornare sulla Terra.

La madre di Persefone, Demetra (Cerere per i romani), la dea dell’agricoltura e della fertilità, si rivolse allora Zeus, il re degli dei, per poter riavere la figlia, e questi emise la sua sentenza: la ragazza sarebbe potuta tornare sulla Terra, ma solo a patto che non avesse già mangiato il cibo dei morti.

Persefone, però, aveva già assaggiato sette chicchi di melograno – secondo alcuni ingannata da Ade, che sapeva che in questo modo l’avrebbe legata a sé – e quindi Zeus fu costretto a ripiegare su una soluzione di compromesso: la ragazza sarebbe restata nel Tartaro per tre mesi all’anno, e sarebbe salita sulla Terra negli altri nove, in un ciclo destinato a ripetersi in eterno.

Irritata da questo parziale insuccesso, Demetra decise allora che in quei tre mesi la Terra non avrebbe dato frutti, e così nacque l’Inverno.

La ciclica discesa negli inferi di Persefone mi ha ricordato l’appuntamento fisso della mia paziente con il vuoto, l’assenza, il dolore, durante i suoi ricorrenti periodi di depressione.

Nel mito, l’obbligo della discesa è legato all’avere assaggiato sette chicchi di melograno, la cui dimensione simbolica è quindi caratterizzata da questa inesorabile ciclicità.

Dunque, ho pensato: se il rimedio omeopatico si va a collocare anch’esso in questa dimensione, deve poter aiutare quelle persone che, come la mia paziente, sono vissute da questo simbolismo.

Ho così prescritto Granatum 200 CH, un farmaco che occupava un posto decisamente marginale nella prima repertorizzazione (363).

Il risultato è stato sorprendente: la paziente ha iniziato a sentire un grande calore in tutto il corpo e a sudare molto, e contemporaneamente ha iniziato ad essere sempre più attiva.

Dopo qualche giorno, le ho consigliato di dimezzare la dose di Clomipramina e dopo una quindicina di giorni mi sono affrettato a eliminare del tutto sia questo farmaco che il Risperidone, visto che la badante mi riferiva di un’eccitazione ed una loquacità crescenti, che sono diminuite una volta tolti i farmaci.

Da allora, Ottobre 2023, non ha più preso neurolettici antidepressivi, assume soltanto benzodiazepine per momenti di ansia e insonnia.

Ha preso di nuovo Granatum 200 CH nel Luglio 2024, quindi Granatum MK in Ottobre 2024, e infine Granatum XMK a Gennaio 2025.

Le varie diluizioni si sono sempre dimostrate efficaci, sia quando sembrava rischiare un episodio depressivo, sia quando sembrava virare verso un episodio ipomaniacale, stabilizzandola ogni volta.

Fino ad oggi, Luglio 2025, la paziente non ha più assunto antidepressivi e non ha più avuto ricadute, nonostante le siano capitate diverse vicende molto stressanti, che prima della cura avrebbero sicuramente scatenato una delle sue crisi.

È quindi evidente che, in questo caso, la dimensione simbolica ha permesso di individuare un rimedio ad un livello di similitudine molto alto, che la scarsità dei provings non avrebbe permesso di evidenziare nella maniera tradizionale.

Non c’è dubbio neppure sul fatto che si sia trattato di un caso particolarmente fortunato, anche perché al momento della prescrizione non avevo ancora riflettuto su un secondo, importantissimo elemento di analogia di questo rimedio con il malessere della mia paziente.

Subito dopo aver presentato il caso al XXI Congresso Nazionale FIAMO di Orvieto, infatti, la dottoressa Anna Cicciotti mi ha fatto notare che, dal momento che un altro importante elemento del simbolismo di Granatum è la fertilità, la sua affinità con la mia paziente poteva essere spiegata anche dal fatto che la sua depressione era stata scatenata dall’impossibilità di avere figli naturali.

Confesso che quest’aspetto mi era sfuggito, pur conoscendo il suo ruolo nel simbolismo di Granatum. E, se vogliamo, col senno di poi, possiamo aggiungere che la stessa Demetra, madre di Persefone, era la dea della fertilità non solo in agricoltura, ma anche per quanto riguarda la capacità della donna di procreare.

Si spiega così lo straordinario risultato ottenuto nel mio caso: si è trattato di una doppia enfasi, di due importantissimi elementi della dimensione simbolica di Granatum che sono stati coinvolti: la ciclicità, l’appuntamento periodico e inesorabile con il Tartaro della depressione, e l’infertilità, la tristezza derivante dal fatto di non potere avere figli naturali.

Al punto che si può proporre un’indicazione terapeutica per Granatum, da tenere presente nel caso ci si dovesse trovare di fronte ad una paziente (o un paziente) che presenti i due tipi caratteristici di sintomi: la discesa periodica nel Tartaro, ovvero la ciclicità della malattia, e i problemi con la fertilità.

Ho anche provato, quasi per gioco, ad aggiungere questi due elementi al Repertorio: ho creato la rubrica Persephone’s disease, come sottorubrica di Mind, Periodically, inserendovi il solo Granatum, al secondo grado, e ho aggiunto questo rimedio, sempre al secondo grado, alla rubrica Mind, Children, desires to have, to beget, to nurture.

Granatum è risalito di molte posizioni, anche se non è ancora tra i primissimi rimedi.

È evidente che una modalità di repertorizzazione più attenta agli aspetti simbolici sarebbe di maggior aiuto nella scelta del rimedio, ma non possiamo occuparci ora di questo.

L’aspetto sicuramente più importante da considerare è il fatto che il simbolismo del melograno abbia permesso di scegliere un rimedio molto efficace, che non era possibile individuare con i metodi tradizionali. L’ottimo risultato ottenuto convalida così la tesi che il rimedio omeopatico dematerializzato si vada a collocare in una posizione intermedia tra psiche e materia, la dimensione simbolica, a livello della quale partecipa sia delle proprietà spirituali della foresta di simboli della Natura descritti da Baudelaire, sia dell’efficacia terapeutica delle farmacie dei prati, delle montagne e delle colline di cui ha parlato Paracelso

Bibliografia

– Baudelaire C., Corrispondenze. In: I fiori del male. Milano: Mondadori, 2017.

– Cichetti A., Generiamo Salute. Il farmaco omeopatico come via di accesso alla dimensione simbolica, tra psiche e materia;

– De Martino E. 1961, La terra del rimorso. Il Sud tra religione e magia Milano: Il Saggiatore; 1961.

– Graves R., I miti greci. Milano: Longanesi; 1983.

– Jung C. G., La sincronicità come principio di nessi acausali. In: Opere. Volume 8. Torino: Bollati Boringhieri; 1976.

– Mangialavori M, Materia Medica Clinica. Alcuni aracnidi in medicina omeopatica. Tarentula e similari. Bologna: ©Mangialavori, 2019.

– Paracelso, Paramirum. Fidenza (PR): Enea Edizioni, 2012.

– Trevi M., Metafore del simbolo. Milano: Raffaello Cortina; 1986.

1 commento

  • Giovanna Gallerani

    Molto interessante…
    Non so ma ho un vago ricordo, che addirittura qualche ginecologo o nutrizionista abbia vietato a una paziente in dieta ” io
    iperfertilizzante” in vista di una fecondazione artificiale, proprio il melograno. Possibile?

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