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COVID19: la sindrome che colpisce gli operatori in prima linea

L'"Affaticamento da compassione" è noto fin dagli anni '90, e dopo un anno di pandemia ha colpito duramente medici e infermieri
1 Maggio, 2021
Tempo di lettura: 2 minuti

In un anno di pandemia di COVID19 gli operatori sanitari sono stati, di volta in volta, inneggiati o vituperati. Spesso eroi, con dubbie metafore su guerre, fronti, e prime linee. Qualche volta demoni, pronti ad approfittare della loro posizione. Di certo nella categoria ci saranno esemplari dell’uno e dell’altro tipo, ma è altrettanto sicuro che la grande maggioranza di loro sono persone normali, lavoratori che sono stati esposti a un carico emotivo devastante, e che spesso non hanno retto.

COVID19: la sindrome che colpisce gli operatori in prima linea

Del resto, che esista una sindrome da “affaticamento da compassione” (compassion fatigue in inglese) è cosa nota fin dall’inizio degli anni ’90. Dal 1992 per la precisione, quando Nursing Magazine pubblica un articolo di Carla Joinson intitolato “Coping with Compassion Fatigue. Nella pubblicazione si parlava del fortissimo esaurimento sofferto da un’infermiera che aveva visto morire un paziente a cui era legata. Questo disturbo ha qualcosa in comune con la sindrome post-traumatica da stress, dalla quale però si differenzia. Il soggetto, infatti, non ha vissuto di persona alcun trauma, ma ne ha vissuto il dolore e la sofferenza per interposta persona.

L’affaticamento da compassione, cos’è e come si manifesta

Se l’infermiera protagonista di quell’articolo era sconvolta per la perdita di un paziente, è facile immaginare cosa possa accadere alla mente di chi in un anno di pandemia ha visto morire decine, a volte centinaia di persone, spesso in condizioni terribili. Alleviare le sofferenze altrui, specie di persone con cui ci capita di stare in contatto ogni giorno, soddisfa i nostri desideri altruistici, e ci regala nuove motivazioni. Assistere al dolore senza poter far nulla, invece, genera frustrazione e angoscia. La mente umana non regge un trauma di queste proporzioni per tempi prolungati, e quindi i cedimenti tra medici e infermieri sono diventati sempre più frequenti. Stime realistiche prevedono che al termine della pandemia, i problemi psicologici tra i sanitari raddoppieranno.

Un malessere che può rendere impossibile continuare a lavorare

Paura, depressione, senso di impotenza, cinismo. I sintomi dell’affaticamento da depressione possono a volte essere diametralmente opposti tra loro, dando l’impressione di una persona che viva maniacalmente il proprio lavoro, o al contrario una che lo pratichi senza alcun attaccamento o passione. È evidente che entrambe le reazioni sono meccanismi difensivi, e che il soggetto che manifesti questi problemi abbia bisogno di un adeguato supporto psicologico. Le conseguenze potrebbero peggiorare col tempo, portando alla necessità di abbandonare la posizione lavorativa, o arrivando al crollo psicologico vero e proprio.

È tempo di correre ai ripari in maniera sistemica

Purtroppo un sistema sanitario alle corde e il protrarsi dell’emergenza non hanno fin qui consentito l’adeguato sostegno che gli operatori del settore avrebbero meritato. Anzi. Spesso medici e infermieri, soprattutto nei primi mesi della pandemia, sono stati ostracizzati o ghettizzati come untori. È giunto il momento di correggere questo approccio, prima che i danni primari e secondari diventino devastanti.

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